Recensione: Game Over
Solido; ignorante; melodico; onesto. Questi i primi aggettivi che mi vengono in mente se penso a “Game Over”, diciassettesimo album per gli U.D.O. del nostro amico Dirkschneider (se poi ci mettiamo a considerare anche Accept&C. la lista si fa davvero lunga). Il piccolo grande tedesco torna a tre anni dal precedente “Steelfactory” con la sua nuova mattonata: 16 tracce per sessantanove minuti scarsi di durata, durante i quali il padrino del power metal mitteleuropeo dispensa ampie dosi del suo tipico heavy rock impattante e cafone. Leggendo tra le righe si potrebbe immaginare, da questa mia breve introduzione, che la ricetta del biondocrinito mastino non sia cambiata di molto rispetto al passato, e in effetti è proprio così: “Game Over” resta fedelmente ancorato a coordinate stilistiche riconoscibili in un millisecondo e che, bene o male, fanno parte da tempo del modo di Udo di intendere il metallo. Dall’iniziale “Fear Detector” alla conclusiva “Metal Damnation” si assiste a una carrellata di canzoni semplici, dirette, pensate per essere assimilate immediatamente grazie a melodie maschie ed orecchiabili scandite attraverso tempi medi e riff di chitarra a volte fin troppo canonici. Un’uniformità ritmica (le canzoni che sgarrano dal diktat del mid tempo, qui, si contano sulle dita di mezza mano) che da un lato rende “Game Over” un lavoro compatto e concentrato, mentre dall’altro tende ad azzerarne il tasso di scossoni durante l’ascolto. Questo provoca una sorta di ristagno, con le tracce che – complice anche la loro struttura lineare – rischiano di assomigliarsi un po’ troppo tra loro. A questo punto, però, come una pioggia fresca in un afoso pomeriggio di Luglio, entrano in gioco il fiuto dell’instancabile Udo per le melodie impattanti punteggiate di epicità nei punti giusti e, soprattutto, l’attitudine di chi, dopo più di quarant’anni di musica, ha ancora fame. Due elementi che, da soli, ammantano le canzoni di “Game Over” di tutto un altro respiro. Macinando gli ascolti, infatti, diventa sempre più evidente come quel vecchio volpone del signor Dirkschneider abbia composto un album che, sotto l’ingannevole patina di lavoro di mestiere, senza infamia e senza lode, si rivela in realtà più ambizioso del previsto, consentendomi di apprezzare i piccoli tocchi di classe di cui è punteggiato. Prima di essere frainteso mi spiego meglio: “Game Over” non è un capolavoro ma non posso neanche negare che le tracce che lo compongono, pur nella loro estrema semplicità strutturale e nella loro omogeneità complessiva, posseggano un tiro a cui è difficile resistere. Ciò contribuisce in maniera determinante a sollevare l’indice di gradimento dell’album, oltre ad invogliarmi a premere di nuovo play ogni volta che raggiunge la fine. Per la serie: gli ingredienti della zuppa sono sempre quelli, ma se la zuppa è già bella saporita così perché dovrei lamentarmi? Alla fine la proposta di Udo Dirkschneider è così, come è sempre stata: una musica sanguigna e passionale che si destreggia tra inni ruggenti carichi di pathos – la già citata “Fear Detector”, “Metal Never Dies” o “Thunder Road” – perfetti per fomentare gli animi con la loro immediatezza e orecchiabilità, tracce arcigne e dal profumo incombente – “Holy Invaders”, “Empty Eyes” e la relativamente più movimentata “Like a Beast” – e momenti più rockeggianti – “Unbroken”, “Speed Seeker” o “Kids and Guns”, dall’incipit in odor di Ac/Dc e un testo riguardante la preoccupante combinazione armi+minori. Certo, con una simile quantità di brani in scaletta è quasi fisiologico incappare in episodi un po’ sottotono: “Prophecy” e “I See Red”, ad esempio, non mi hanno entusiasmato per tasso di coinvolgimento, mentre la ballata “Don’t Wanna Say Goodbye” e “Marching Tank” mi hanno convinto solo a tratti, ma va comunque detto che gli episodi positivi sovrastano quelli negativi, consentendo a “Game Over” di dire la sua nel mercato odierno senza paura di sfigurare. Si potrebbe obiettare che, nonostante sedici canzoni, “Game Over” non possieda il classico pezzo da novanta, la traccia che fa piazza pulita intorno a sé: è vero, ma è altrettanto vero che la qualità media dell’album si mantiene per ampi tratti su un buon livello, e che nonostante una durata corpacciuta scorre comunque senza problemi. Per tutti questi motivi non posso che considerare “Game Over” un buon disco, nonché l’ennesima conferma della grinta di una vecchia volpe del metallo europeo.