Recensione: Gap var Ginnunga
Non era ancora tramontato l’ultimo sole del 2003 e già si parlava di Wardruna nei recessi più umidi di Bergen. Kvitrafn, il corvo bianco, al secolo Einar Selvik, forte della sua esperienza da polistrumentista e cantante in band che oscillano tra il brutale più incondizionato (Gorgoroth) e il pagan più oscuro (Jotunspor, Det Hedenske Folk) aveva deciso di dare una svolta decisa alla propria carriera creando un’opus nova intrisa di misticismo nordico che avrebbe svettato oltre ogni classificazione musicale, traendo ispirazione dalle atmosfere più sinistre del pagan metal e da quelle più idilliache dell’ambient notturno scandinavo dei primissimi anni ’90. La monumentalità del progetto ha attirato al suo fianco artisti del calibro di Gaahl e di Lindy Fay Hella, incarnazione dello spirito più lirico della natura che la lancerà probabilmente nell’olimpo delle voci femminili, al fianco di interpreti storiche come Cia Hedmark e Kari Rueslåtten.
L’opera, divisa in tre parti, porta il nome di Runaljod e il primo capitolo si prefigge di svelare tramite un viaggio liturgico e ancestrale la prima delle tre grandi file di rune che compongono l’antico Futhark, primigenio alfabeto ideogrammatico che si è propagato con alterne vicende per oltre 1000 anni tra le terre e le popolazioni d’Europa. Il cuore pulsante di “Gap var Ginnunga” è costituito da otto rune principali che fluttuano con inquietante precisione tra i tre “ætt”, o “clan”, che distinguono linearmente i vari gruppi di rune e che fanno capo a Frøy, Hagl e Ty.
La ricostruzione in musica dello spirito preistorico europeo passa attraverso una serie di fasi decisamente pratiche volte alla purificazione assoluta di ogni elemento, tangibile e non, che compone il progetto Runaljod. La maggior parte degli strumenti che sono stati utilizzati per la messa in atto di quest’opera in dodici capitoli sono stati costruiti interamente a mano utilizzando pelli di cervo, corni di capra e legno recuperato dalle zone, diciamo così, d’azione di ogni singola runa.
Il risultato è un unicum ideologico, una creazione musicale che si astrae da ogni crisma del pagan metal e che dal pagan stesso assorbe ogni forza vitale, manipolandola con cura in dodici ‘runi’ dove le chitarre elettriche si eclissano a favore dei violini, le percussioni risuonano tra le brezze dei boschi, le tastiere si tramutano in lunghe evoluzioni flautistiche e le voci si moltiplicano verso un amalgama corale di grande significato musicale e artistico. Già in passato l’heathen metal aveva ospitato tra le sue corde diversi intermezzi “sacrali”, partendo da band come Hagalaz Runedance, passando per Drudkh, stringendo la mano a Tenhi fino ad arrivare alle opere maestre del calibro di Kveldssanger degli Ulver.
Per la tessitura di Gap var Ginnunga si rispolvera l’antica tradizione del Galder, un tipo di canto sciamanico scandinavo di varia natura e dagli intenti più disparati, per lo più benauguranti o protettivi. Tradizione vorrebbe che tale Galder abbia dei punti in comune sia con le rime recitate dai Runnoia, specie di bardi finnici che in antichità viaggiavano di casa in casa perpetrando le vicende del Kalevala e del Kanteletar – profonda ispirazione per artisti del calibro di Amorphis ed Ensiferum – e sia con gli “joika” dei Sàmi, popolazione indigena del nord della Scandinavia. Il sinistro stacco tra il runo “Heimta Thurs” e la spaventosa chiosa conclusiva del gemello “Thurs” riflette, tramite un’impressionante similitudine con tutti gli joika gutturali di tradizione sàmi, l’ignobile natura dei giganti di cui la runa thurs/thurisaz è fregio storico indelebile.
Allo stesso modo gutturale e tremendo, ma stavolta espressione della forza della natura, è il runo “Hagall“, incarnazione musicale della grandine, che vede crescere nelle sue viscere melodiche il suono della pioggia, il frusciare del vento e un ossessionante tamburo di pelle di cervo accompagnato da una minacciosa tastiera, perpetua e monocorde, che prelude a un serpeggiante cantato sussurrato le cui linee vocali si intrecciano nei crini di un violino dell’Hardanger magistralmente interpretato da un ispirato Hallvard Kleiveland. La grandine lascia il posto al sublime riecheggiare delle voci del sottobosco, ed è un trionfo di vibranti arpe da bocca, di ticchettanti percussioni e di cori maschili la cui pregevole mistura non sfigurerebbe persino nelle opere più dinamiche di Ulf Söderberg e dei suoi Vargskymning e Nattljus.
Uccelli di ogni sorta e voci driadiche si ritrovano a danzare attorno a una macchia di betulle la cui manifestazione simbolica, “Bjarkan“, cementa il secondo runo di quest’epopea naturale. L’apparizione stridente del tagelharpe, unica testimonianza di violino risalente all’epoca vichinga, introduce Á, meglio conosciuta con il nome “Jara“, la runa del raccolto: è in questo frangente che Gap var Ginnunga sfiora il mondo della musica ‘terrena’ regalando un leit-motif melodico che tornerà a più riprese anche nei runi seguenti. È proprio in questa hit, ventosa e cinguettante, che l’amalgama vocale di Gaahl, Kvitravn e Lindy raggiunge la sua massima espressione artistica, in un continuo sovrapporsi di linee cantate, sussurrate e recitate come comandato dalla tradizione sciamanica del Galder e degli Joika, tanto da imporsi come un novello Sjelens Sang dal cantato discernibile, dinamico e moderno, diluito in otto minuti e immerso in atmosfere ambient tipicamente neofolk.
Un gorgogliare inconfondibile porta, senza sorpresa, a una sorta di Jara più introspettivo, il runo denominato “Laukr“, più famoso con il nome di Laguz, ovvero la materializzazione di tutto ciò che di liquido scorre sulla terra: fiumi, laghi e ruscelli. Lo scorrere è sinomino di mutazione continua, come insegnatoci anche i filosofi greci, e questo breve percorso sulla falsariga di Jara scorre, letteralmente, fino al parossistico esplodere dei fuochi di “Kauna“, la fiamma, il cui ruggire è parte integrante delle linee melodiche di una traccia dal retrogusto quasi orientale, il cui filo è legato strettamente alle rune dei due altri clan, come Laukr e la stessa Jara.
Notevoli anche le tracce non strettamente legate a una runa, ma sapientemente distribuite nell’album come sollievi spirituali: è il caso dell’ottima “Togntale” o della stellare “Løyndomsriss“, decisamente scevra di strumentazioni al contrario dell’opener “Ár Var Alda“, che risuona invece delle meraviglie della natura riflesse dai lunghi riecheggiare di corni di capra e ariete sovrapposti a zoppicanti violini di Hardanger che schiudono a poco a poco la loro immane potenza visionaria come prodromo al lungo percorso narrativo che scandisce i 52 minuti di questo primo capitolo della trilogia di cui Kvitrafn Selvik è unico araldo ufficiale.
Ogni traccia è stata liturgicamente registrata nei luoghi considerati più adatti allo spirito della runa svelata, sia all’esterno che all’interno di strutture naturali e artificiali. La cura maniacale per il rito è forse l’aspetto più rilevante dell’album, che acquista un fascino sovrannaturale, misterioso, e risveglia gli istinti più ancestrali sopiti nella coscienza degli uomini.
Un album da ascoltare nella sua interezza, uno dei pochissimi album di questo genere impossibili da interrompere: una volta ingranata la marcia, le sottili melodie, le cesure finemente cesellate tra una traccia e l’altra e le atmosfere monumentali e al tempo stesso eteree impongono un ascolto privo di sussulti.
Gap var Ginnunga è uno di quei pochi album stranieri, visionari e avanguardisti di cui è costellato il panorama musicale scandinavo, Ancora una volta è la Norvegia a concimare quell’albero di sperimentazioni che affonda le radici nel metal più oscuro e bestiale e agita le fronde verso alcune tra le manifestazioni musicali più sublimi del genere.
Gli amanti del neofolk più sacrale e i viaggiatori dello spirito non si lascino sfuggire né questo, né tantomeno ciò che si prospetta nel futuro di una delle trilogie più significative e organizzate del pagan scandinavo moderno.
Daniele “Fenrir” Balestrieri
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TRACKLIST:
1. Ár Var Alda
2. Hagall
3. Bjarkan
4. Løyndomsriss
5. Heimta Thurs
6. Thurs
7. Jara
8. Laukr
9. Kauna
10. Algir – Stien Klarnar
11. Algir – Togntale
12. Dagr