Recensione: Gates Of Fire
Difficile analizzare l’ultima fatica dei Manilla Road, difficile mettere su carta una valutazione razionale per questo blocco di Heavy Metal lungo, spasmodico, noioso, ripetitivo eppur affascinante, epico, monolitico. L’ultima fatica di Mark Shelton, intitolata “Gates of Fire” segna un clamoroso ritorno al passato (in particolare al sound di Crystal Logic, anche se meno ricercato e più grezzo), il disco è una complessa opera divisa in 3 trilogie a loro volta composte da 3 canzoni ognuna (dalla durata media lunghissima). E’ un full lenght, questo, privo di romanticismi, privo di ogni sorta di classe musicale, è un costante e continuo cozzare di acciaio su acciaio, un incessante e lento battere di lame di metallo che scalfiscono fredde armature di bronzo, non c’è scampo alcuno, nessuna sorta di sentimenti al di fuori dell’onore e della gloria. Puro Epic Metal cadenzato, pagano e solenne. Ma andiamo con ordine ad analizzare le varie trilogie del platter.
Trilogia I: The Frost Giant’s Daughter. Questa trilogia è incentrata su Conan e i racconti dello scrittore R.E. Howard. E’ forse la parte del disco che più ricorda Crystal Logic, a volte addirittura sfacciatamente, basta ascoltare l’iniziale Riddle Of Steel per rendersene subito conto, articolato brano dalle tinte quanto mai pagane (provate ad ascoltare i suoi refrain…). Un lento arpeggio di Shelton accompagna tutta l’esecuzione della lenta Behind The Veil, freddo e lieve soffio d’acciaio che svanisce delicatamente per lasciare spazio alla spasmodica epicità di When The Giants Fall (splendido il refrain) che chiude con barbaricità questo primo atto del disco.
Trilogia II: Out of The Ashes. E’ la trilogia incentrata sull’Eneide di Virgilio e, quindi, sulla nascita di Roma dalla distruzione di Troia. Sono 14 i minuti che vanno a comporre l’iniziale The Fall of Iliam, monumentale suite dagli ancestrali refrain, articolata lama di ferro intenta a ricamare amari disegni di sangue, distruttiva eppur affascinante nella sua arcana irruenza. Più dinamica è la seguente Imperius Arise (ottima la prestazione del singer Hellroadie), splendida la sua costruzione melodica mentre spetta alla possente e “doom oriented” suite Rome (11 minuti), chiudere degnamente questa splendida trilogia.
Trilogia III: Gates of Fire. E’ la parte del disco incentrata sulle vicende che videro protagonisti gli Spartani al passo delle Termopili. L’iniziale Stand of the Spartans è un’autentico fiume di magmatico metallo pesante che scorre via alimentato da riff grezzi e lenti. E’ di sicuro indiscussa hit del disco la seguente Betrayal, lunga suite dai mitologici sapori, ineccepibile ode metallica di un tempo che si perde nei nostri ricordi eppur pronto a rivivere, almeno per un attimo, attraverso le eroiche atmosfere qui rievocate con triste maestria. Chiude la trilogia, e l’opera tutta, Epitaph to The King, autentico epitaffio finale, 10 minuti di malinconico ed eroico incedere musicale portato in auge dalle delicate melodie tessute dalla chitarra di Shelton ed accompagnate dal delicato sussurro di Hellroadie.
Lontano da ogni fanatismo di sorta che spesso accompagna le uscite discografiche di queste band mi sento di concludere affermando che il disco in questione è un album marziale, spartano, grezzo e ripetitivo, le parti strumentali sono lunghissime e, di conseguenza, la durata media dei brani. Tutte caratteristiche, queste, che ne vanno a minare l’accettabilità media. Ma è ad un’analisi più profonda che questi componimenti vanno interpretati, ed allora si, allora potremo rievocare le saghe di Conan ed i segreti dell’acciaio, allora potremo rivivere le gesta di Enea e scorgere un morente Re Leonida intento ad ascoltare, dall’Ade, l’epitaffio alla sua gloria e, almeno solo per un attimo, ne sarà valsa la pena. Questo è Gates of Fire, solenne poema d’acciaio, prendere o lasciare.
Vincenzo Ferrara