Recensione: Gathered Around the Oaken Table

Di Daniele Balestrieri - 1 Giugno 2003 - 0:00
Gathered Around the Oaken Table
Band: Mithotyn
Etichetta:
Genere:
Anno: 1999
Nazione:
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91

Risuona il corno del terzo lavoro degli svedesi Mithotyn, a ragione una delle band più significative del panorama Viking. Terzo lavoro in termini musicali significa solo una cosa: tensione, e crisi. Terzo lavoro significa botto clamoroso o gloria. Quanto potevano essere nervosi i Mithotyn all’uscita di un album come questo, dopo un King of the Distant Forest che era stato considerato caposaldo del Viking Metal grazie anche al terreno preparato da In the Sign of Ravens? La scena è stata indubbiamente in trepidazione, e quel 1999 ha portato alla luce un’autentica gemma.

Per quanto a livello di distribuzione non fossero mai stati particolarmente felici, i Mithotyn sono entrati sulla bocca di tutti come sinonimo di Viking, citati molto più spesso di un Bathory o dei Thyrfing, e il perché non mi è mai stato chiaro finché non ho messo insieme tutti i pezzi di questo Gathered Around the Oaken Table. La costruzione che ho avuto davanti è risultata perfettamente plausibile, anche sopra le mie aspettative più felici, e sono convinto di poter affermare che, allo stato attuale, questo album rappresenta “il” viking metal. È una affermazione molto forte, ma i motivi sono abbastanza chiari. È impossibile inserire in una categoria una simile opera, non entra nel buco dell’epic, già occupato da Bathory per esempio, nemmeno in quello del folk, o del black, o del death. Gathered è Viking Metal, punto. E non è dannatamente poco, basta analizzarlo nella sua interezza.

Il disco si snoda attraverso undici brani, per una durata di oltre 55 minuti. La voce rimane sempre quella caratteristica black, un alternarsi di screaming e growling brutale, spezzato da cori bassi e sporadici rumori di fondo. Sebbene questo equilibrio negli aspetti vocali abbia comunque contraddistinto il loro precedente album, il livello raggiunto in quest’ultimo è di ben altra entità e ricchezza, dimostrabile in canzoni come “Chariot of Power” o “Lord of Ironhead“. Il Viking essenzialmente deve avere tanto da dire, molto più degli altri generi, essendo un tipo di metal che deve molta della propria potenza alle emozioni trasmesse dai testi, al contesto e alla comunicazione descrittiva. Il sistema utilizzato dai Mithotyn rimane per lo più il black, un black veloce fatto di rullanti serratissimi, chitarre dal suono discretamente sporco e screaming selvaggio. Eppure in ogni canzone c’è quella rottura melodica, quell’assaggio di tempi antichi sulle note di una chitarra acustica, o di un coro di voci maschili che sembra provenire direttamente da un villaggio vichingo, o proprio come loro stessi suggeriscono, dall’immagine stessa della copertina. È di una facilità disarmante innamorarsi delle melodie trascinanti di tutte le canzoni, del portentoso incedere di “Imprisoned“, di “Hearts of Stone” o di “Nocturnal Riders”. In mezzo a un album tanto equilibrato nella sua varietà non si possono comunque non citare tre canzoni che giudico molto significative: la prima è “In the Clash of Arms“, in cui tutti i membri della band si cimentano in cori di battaglia (una cosa già accaduta in “Trollvisa”, nel loro precedente album) mentre sullo sfondo scorre, come in un copione che si ripete in buona parte delle band viking, la battaglia di Braveheart. Canzone di grande potenza, quasi doom nel suo incedere mostruoso, è “The Well of Mimir“, un inno alla saggezza conquistata da Odino interamente in growling, un growl tra i più profondi ed emozionanti che io abbia mai sentito in questo genere, un growl che mi ricorda ottimi tempi del calibro di Amon Amarth o Amorphis. Tremendo il finale, poi, dopo una decima “Guided by History” in grande stile quasi folk si passa a una undicesima “The Old Rover“, poco compresa dalla maggior parte degli ascoltatori, dei quali alcuni si sono soffermati alla pronuncia inglese un po’ ridicola di questa quasi-ballad, e altri hanno addirittura affermato che è una canzone assolutamente fuori luogo, un po’ come le famose ultime ballad Over the Hills and Far Away nei Thyrfing o Per Tyrssons Dottrar I Vaenge nei Falconer. È che probabilmente in pochi si sono resi conto della tragicità di questo addio della band, una lentissima dichiarazione di stanchezza, una chiusura in grande stile, prematura, di una carriera che invece gli brillava davanti agli occhi. La band si paragona a un viaggiatore stanco che si riposa per l’ultima volta, e lascia spazio alle nuove generazioni per continuare ciò che loro avevano iniziato. È un pianoforte tristissimo, una chitarra cadenzata, ruggente e triste introduce anche vocalmente allo scempio che si sarebbe compiuto di lì a poco: lo scioglimento dei grandi Mithotyn e la creazione, pulita e trasparente, dei Falconer, indegni successori di una band che non aveva assolutamente terminato di dire ciò che doveva dire.

Recuperate Gathered Around the Oaken Table se volete un album vario, ricco di melodie, con possenti radici black e tanta espressività da essere considerato, per ora, una delle espressioni più importanti del True Viking Metal. Più maturo del primo, registrato meglio del secondo, in grado di convogliare espressività ed emozioni in poco meno di un’ora, l’ultima ora del viking metal di vecchia generazione, suonato con gusto proveniente da un passato musicale che lasciava poco spazio alle sperimentazioni che già stavano divorando Enslaved, Einherjer, Vintersorg e Thyrfing. Acquistare questo album è come adorare un antico dio, è come procurarsi un baluardo di fede sincero, nel nome di un antico codice che con la scomparsa della band ha trascinato una parte di Viking nell’amaro abisso dei ricordi.

TRACKLIST:

  1. Lord Of Ironhand
  2. Watchmen Of The Wild
  3. In The Clash Of Arms
  4. Hearts Of Stone
  5. The Well Of Mimir
  6. Chariot Of Power
  7. Nocturnal Riders
  8. The Guardian
  9. Imprisoned
  10. Guided By History
  11. The Old Rover

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