Recensione: Generation Nothing
Quando, nell’estate del 2009, la notizia dello split dei Metal Church si era diffusa, pochi erano rimasti davvero sorpresi: un’attività che faticava a tornare davvero incisiva dopo un album (This Present Wasteland, dell’anno precedente) non pienamente convincente, una line-up meno carismatica rispetto al passato e l’interesse dei fan scemato erano stati segnali premonitori decisamente forti. Eppure, come sempre più spesso accade, dopo pochi anni i nostri hanno colto l’occasione di un evento speciale (il festival-crociera 70000 Tons Of Metal), per riprendere in mano gli strumenti sotto il vessillo della Chiesa Metallica ed uscire con un nuovo lavoro, Generation Nothing, oggetto della presente analisi, messo sul mercato dalla piccola ma intraprendente indie Rat Pak Records (già label dietro la quale sono usciti i lavori solisti del vocalist Ronny Munroe). In questi casi, la domanda che subito viene in mente è la più semplice che si possa immaginare: ne valeva davvero la pena? Era opportuno che una band entrata nella storia del metal grazie ad una serie di capolavori dell’US Power Metal tornasse in attività quando lo split era sembrato naturale, se non opportuno? In questi casi il responso potrebbe essere falsato dall’effetto nostalgia, per cui meglio tuffarsi nell’esame del contenuto e lasciare il verdetto alla fine.
Bulletproof dovrebbe essere un’opener di impatto e in effetti la costruzione del pezzo sembra buona: il riffing che sostiene la strofa è gagliardo e subito le doti di Ronny Munroe vengono fuori come principale asso nella manica della band californiana; profondamente ancorato negli anni ’80 come stile, il cantante si produce in acuti come insegna la vecchia scuola degli screamer quando serve e il suo timbro è sufficientemente sporco da non essere mai stucchevole (tanto da sembrare una sorta di David Defeis meno edulcorato). Detto questo, da notare come il pezzo non sia altrettanto valido nel momento del ritornello, banale come non mai. In rapida successione, segue Dead City, discreto pezzo dalle ritmiche serrate con un Munroe ancora su tonalità alte: lo stile è tipicamente Metal Church, segno che il tocco del fondatore Kurdt Vanderhoof è ancora ben presente, anche se siamo lontani dalla solennità dei migliori pezzi della band. Le cose migliorano con la title-track e, manco a dirlo, bisogna ringraziare il vocalist per un bridge interpretato magnificamente, in un pezzo tutto sommato più che buono. Come da tradizione, la Chiesa di Metallo dà il meglio di sé sui pezzi più elaborati e d’atmosfera: la lunga Noises In The Wall contribuisce a far aumentare le quotazioni del disco, in un crescendo di intensità che ricorda certe ambientazioni tipiche dei vecchi cavalli di battaglia della band. Certo, non siamo al cospetto della nuova Watch The Children Pray, tuttavia le variazioni sul tema poste a metà pezzo sono degne di nota: finalmente un songwriting degno del nome Metal Church. Purtroppo la qualità dell’album torna subito ad essere altalenante: dopo una Jump The Gun certamente non memorabile (ancora una volta un chorus deboluccio) è la volta di Suiciety; ai più attenti, l’andamento dell’introduzione acustica non potrà non riportare alla memoria la splendida In Harm’s Way (dal mai troppo celebrato Human Factor) ibridata con la ‘megadethiana’ In My Darkest Hour…tutto questo per dire che non siamo alla fiera dell’originalità e anche il resto del pezzo non brilla per contenuti, sembrando per certi versi una sorta di collage di riff e passaggi di per sé non brutti, ma male amalgamati e con un filo conduttore davvero troppo sottile. Tosta e cattiva quanto basta la ‘thrasheggiante’ Scream, pezzo sicuramente ad hoc per le esibizioni dal vivo, mentre è piuttosto ben cadenzata Hits Keep Comin’, dotata, finalmente, di quel mood così disilluso, tipico della band di San Francisco che ha contribuito non poco a rendercela gradita da tanti anni a questa parte. Avvicinandosi alla fine, si ha la velata speranza che le ultime cartucce siano quelle buone a lasciare il segno per permettere a Generation Nothing di conquistare almeno una sufficienza netta, ma ahimé non è così: la chiusura è affidata ad altri due pezzi che non convincono appieno: Close To The Bone è impalpabile e inoffensiva, mentre The Media Horse è quasi indisponente nella sua inconcludenza e gradevole solo negli stacchi lenti e melodici. Niente di più.
Quello dei Metal Church, in definitiva, non va ad annoverarsi tra i ritorni col botto che abbiamo avuto la fortuna di ascoltare in questi ultimi anni. L’eccellente prestazione di Ronny Munroe e una serie di passaggi costruiti con la maestria dei veterani non sono sufficienti a coprire la diffusa carenza di idee, un songwriting lontano dall’essere brillante e una mancanza di mordente diffusa. Ci si chiedeva all’inizio: un ritorno inutile? Assolutamente no: i Metal Church, anche nella formazione attuale, rimangono un ensemble di primo livello e ciò sarà evidente nell’imminente tour in giro per l’Europa. Generation Nothing non sarà un lavoro che rimarrà negli annali, tuttavia è la conferma che la Chiesa è viva e tornerà ad iluminare i suoi fedeli.
Vittorio “Vittorio” Cafiero