Recensione: Generation Swine
Ne lessi molte, all’epoca, stroncature per questo album che segnava il ritorno all’ovile del figliol prodigo Vince Neil, dopo la deludente esperienza solista. In realtà i quattro rockers diedero alle stampe un dischetto che, se non fece gridare al miracolo, fu certamente un esperimento ardito e coraggioso da parte di un gruppo relegato da stampa e fans (e da se stesso!!!) allo stereotipo del “sesso, droga e rock n’ roll”. Già era stata indicativa la sferzata verso certo grunge/industrial del precedente “Motley Crue” che riprendeva il discorso già abbozzato in canzoni quali “Primal Scream” e tagliava definitivamente i ponti con il sound “stradaiolo” di quei due dischi che diedero loro fama e dollari (c’é bisogno di citarli?!?); e virando per ben altri lidi musicali, i nostri si resero, tuttavia, conto che il marchio di fabbrica più distintivo del loro monicker era proprio la voce stridula e graffiante di Vince.E allora? Pace fatta e ripresa dei lavori.Nessuna operazione nostalgica però: i nostri riprendono le sonorità ruvide del predecessore, le riadattano alle corde vocali dello storico singer e le infarciscono di influenze disparate e di un tocco di genialità creativa in più.Et voilà, signore e signori, “Generation Swine”, il lavoro più introspettivo e riflessivo ( a livello di liriche), più cupo e pesante (a livello di sound) del combo americano. “Find Myself” mette subito le cose in chiaro: distorsioni di chitarra industrialoidi, voci filtrate e ritmiche ossessive che si stemperano nel bel ritornello beatlesiano.Ma é con la seguente “Afraid” che possiamo parlare di capolavoro: giro di chitarra ipnotico ed azzeccatissimo ed un mega refrain per un pezzo che non sarebbe stato fuori luogo nel repertorio degli Smashing Pumpkins.Se solo le radio l’avessero pompato a dovere!!! E se le immancabili ballate targate Crue ci danno un’idea del loro innato gusto melodico sia nella melensa elettronica di “Glitter” che nell’onirica atmosfera di “Rocketship” che, ancora, nell’omonima ballad pianistica che Lee dedica al figlio Brandon,l’altra faccia della medaglia sono la terremotante title track ed il furioso 1’35” di “Anibody out there” in cui il sound grunge di “Motley Crue” s’incrocia con il punk creando una miscela, a dir poco, esplosiva.Tralasciando episodi minori (vedi “Let us prey”, certamente potente ma priva di musicalità) mi sento di segnalare ancora la cruda e cattiva disillusione di “A Rat Like Me”, la possente “Beauty” nel cui break solista riemergono i bei tempi che furono e la riproposizione, in chiave industriale, del classico “Shout At The Devil”, esperimento discutibile ma interessante. In definitiva, un buon disco che ha risentito pesantemente del nome di chi l’ha sfornato, indissolubilmente vincolato ad altro genere musicale: fosse uscito con un altro monicker – ne sono certo- pezzi come “Afraid” o “Generation Swine” sarebbero diventati dei classici!!!!Ascoltare per credere!!!!