Recensione: Genesis
Quattro anni fa, laggiù nell’Arizona, alcuni adolescenti formavano
una band. Tre anni dopo il primo demo, quei ragazzi, ora poco più che
adolescenti, impazzano sulla scena estrema con il loro debutto discografico. Un
salto che li ha portati vertiginosamente nei piani nobili della musica, passando
dall’autoproduzione a una grande label come la Metal Blade,
dall’anonimato alla ribalta mondiale, assumendo il ruolo di principale
attrazione nei tour in cui la band ha partecipato, supportati da una veste
grafica di livello superiore e con la possibilità di collaborare con nomi del
calibro di Andy Sneap per il mixaggio e il mastering del disco.
Un’esagerazione? Niente affatto.
Alla luce di Genesis, possiamo tranquillamente affermare che
questa scalata è giustificata ampiamente dalla musica dei Job for a Cowboy,
dalla capacità di questi giovanissimi musicisti di regalarci uno dei dischi più
belli di questo 2007 (e non solo), dimostrando una maturità artistica fuori dal
comune. Se con il precedente ep Doom, i nostri si erano presentati con un
biglietto da visita brutal-core molto ben congeniato, con Genesis
i nostri spostano l’ago della bilancia verso la radice prettamente brutal del
proprio sound, vincendo, anzi, stravincendo sulla concorrenza. Tecnica, ferocia,
gusto melodico, fantasia, tutto sparato alla massima velocità, con una
personalità da far invidia a band ben più navigate. I Job for a Cowboy
stupiscono per la capacità di saper districarsi al meglio in un terreno dove è
facilissimo cadere in fallo, non tanto per la violenza sprigionata a fiumi, ma
quanto nell’intelligenza dimostrata da questi ragazzi nel saperla distribuire
all’interno dei brani.
Un riffing snello, estremamente variegato, dinamico, muscoloso, che concilia
i frangenti maggiormente brutal oriented, votati alla devastazione pura, e il
retaggio “core” ancora presente, con la ricerca di atmosfere groovy e
morbidangeliane, piazzando l’assolo melodico al punto giusto, il passaggio ad
effetto per dare maggior respiro al pezzo, o la classica mazzata in blast beat.
Una padronanza tecnica eccelsa unita a un songwriting fra i migliori ascoltati
ultimamente, fanno di Genesis un disco micidiale, un lavoro di
quelli che creano davvero dipendenza, in cui ogni canzone ha un suo perchè, un
particolare spunto, un passaggio illuminante che ci spinge ad ascoltare l’album
senza correre minimamente il rischio di annoiarsi. Anche perchè i Job for a
Cowboy non ce ne danno neanche il tempo (oltre al motivo) piazzando in
apertura un trittico spaventoso: Bearing The Serpent’s Lamb mette in
chiaro le coordinate stilistiche del platter, lasciando a Reduced to Mere
Filth il compito di primo highlight, con un brano che ci catapulta nel giro
di pochi secondi da atmosfere eleganti e oscure, a deliri dal flavour
industriale, seguita da Altered From Catechization, dove fanno capolino
(oltre alla consueta violenza) anche riff sinuosi tanto cari a Trey Azagthoth
e compagni. Dopo il breve intermezzo strumentale Upheaval, si riparte con
un’altra tripletta da urlo, su cui svetta a mio avviso la settima Martyrdom
Unsealed, impreziosita da un break strumentale splendido. Ma la qualità è
tale che rende impossibile estrapolare un singolo episodio dalla tracklist, che,
dopo la seconda strumentale Blasphemy, propone l’opprimente The Divine
Falsehood, in cui compaiono anche tastiere in sottofondo, chiudendo in
bellezza con l’ennesima piccola perla, Coalescing Prophecy.
Genesis è dunque il classico fulmine a ciel sereno, un disco al quale è
praticamente impossibile obiettare qualcosa, con l’unico neo sulla durata
contenuta, in cui sono stati inseriti anche due intermezzi che non aggiungono
nulla. Inezie comunque, per una band che con scaltrezza ha dimostrato di saper
sfruttare il fenomeno MySpace per farsi pubblicità, e che ha saputo
ripagare le enormi aspettative nel momento della verità. Laggiù
nell’Arizona… terra di Job for a Cowboy… se una chitarra suona…
nasce una nuova stella nel firmamento del death metal!
Stefano Risso
Tracklist: