Recensione: Ghost
Quante reunion e quanti ritorni in sella ci sono stati negli ultimi anni di svariate band che si davano per scomparse? La risposta è Innumerevoli. Abbiamo visto nel tempo band più o meno blasonate che, o per stanchezza, o calo di ispirazione, o più semplicemente per desiderio di tornare a una vita più canonica, hanno abbandonato i palchi e gli studi di registrazione sparendo, chi più chi meno, nell’oblio per poi tornare inaspettatamente.
Gli svedesi Saint Deamon appartengono a questa categoria di “fantasmi” che, dopo due album rasentanti la perfezione e seminali per il power metal di fine anni novanta, sparirono nel nulla senza apparenti motivi e senza lasciare più traccia.
Al momento ci vengono in mente altri tre grandi ritorni che si sono successi negli anni e paradossalmente tutti accomunati da fattori non trascurabili. Ad aprire la grande tendenza, in epoca più o meno recente, furono gli Europe che tornarono con “Start from the Dark” nel 2003 seguiti tre anni dopo dai Dissection con l’innovativo “Reinkaos“. Trascorsi svariati anni i Nocturnal Rites nel 2017 irrompono dopo dieci anni di silenzio con “PhoenIX” mentre, dopo qualche proclama sui social network più famosi, i Saint Deamon tornano a mettersi in discussione dopo centoventiquattro mesi dall’uscita del loro ultimo platter “Pandeamonium“.
Abbiamo citato queste band perché tra di loro condividono due fondamentali aspetti, il primo è che entrambi sono provenienti dalle terre svedesi, l’altro aspetto è che dopo lunghi, lunghissimi silenzi, il ritorno sul mercato è coinciso con dei dischi che rappresentavano l’esatto opposto di quello che la band fu nei dischi passati, lasciando spesso interdetti se non addirittura sconcertati, i fan che aspettavano da una vita un nuovo disco dei loro beniamini.
I sex symbols Europe se prima avevano un look con capelli cotonati e un sound fortemente hard rock/AOR oriented, la nuova direzione appariva rozza, cattiva e oscura; i Dissection, dopo la sosta forzata per via dei “problemi disciplinari” di Jon tornarono con un disco che spiazzo tutti per le sue forti sonorità moderniste abbandonando ciò che fu il melodic black metal degli esordi. Discorso leggermente diverso per i Nocturnal Rites che hanno evoluto il proprio sound senza minare le fondamenta e tenendo la connotazione power degli ultimi lavori seppur con un orientamento più modernista e appesantito nei suoni. Ulteriore dato statistico su queste band è il ritorno dopo circa un decennio di silenzio (tredici per gli Europe, undici per i Dissection), un lasso temporale che dal punto di vista prettamente musicale può essere paragonato a una vita intera; le persone crescono, maturano, migliorano tecnicamente (o involvono) e spesso e volentieri i gusti per quanto concerne la propria arte mutano e si evolvono, ciò a giustificare le diverse proposte di queste stesse band al giorno d’oggi.
Dove si collocheranno i Saint Deamon con questo inaspettato “Ghost“?
Dopo reiterati ed attenti ascolti possiamo dire che la band di Jan Thore Grefstad si posiziona in una via intermedia tra questi esempi fatti sopra.
Dieci anni sono tanti ma non abbastanza per i ragazzi di Orebro che nei settantacinque minuti della nuova fatica “Ghost”, non lesineranno ne in potenza ne in classe sopraffina ricordandoci come si suona del vero power metal di classe.
Tuttavia le premesse non furono del tutto rosee quando qualche mese addietro, il nuovo singolo, il primo dopo dieci anni, “Captain Saint D“, entrò impetuosamente nelle casse dei nostri impianti stereo. Un intro tribale tambureggiante seguito da un fischiettio piratesco che riportava una melodia anthemica ma leggermente scontata che spianava le strade a dei chitarroni pesanti e graffiati lasciandoci presagire un nuovo “Start from the dark” (ricollegandoci agli esempi qui sopra); paura in gran parte smorzata e attenuata dal bel ritornello che, nonostante l’orecchiabilità e l’immediata presa sull’ascoltatore, lasciava comunque con un senso di apatia e amaro in bocca.
Una volta arrivato nelle nostre mani il disco definitivo, la prima cosa che balzò agli occhi, subito dopo la bellissima e curata copertina in perfetto e coerente stile con i primi due capolavori della band, è che la succitata song è stata posta come opener. Da qui una serie di paranoie e pensieri negativi sulle successive quattordici tracce.
Schippata immediatamente la già nota “Captain Saint D“, “Call my Name” ci accoglie con un morbido intro tastieroso che dà spazio alle bordate di doppia cassa del nuovo entrato e talentuoso Jarle Byberg e l’ugola d’oro del sempreverde Mr Grefstad che spazzano via i dubbi sulla nuova vita dei Saint Deamon.
I ragazzi di Svezia son tornati e non si sono dimenticati come si suona del puro power metal, anzi, rincarano la dose con delle pillole di progressive che mai male non fanno e danno un’atmosfera e spessore a ogni singola composizione del disco.
Messa da parte la paura di un eccessivo cambio di rotta musicale da parte del quartetto, la terza traccia in scaletta “Return of the Deamons” è ciò che di meglio si possa ascoltare nel power metal nel 2019 e no, non ci stiamo sbilanciando. Chitarre in legato effettate aprono a un tornado di doppia cassa che si evolvono in una strofa che sfocia in un ritornello proposto prima soffuso e accomodante, per poi essere ripreso in maniera epica e fiera facendoci scendere qualche lacrimuccia e riportandoci indietro di almeno dieci anni.
La track list è ciò di più complesso che nel genere non ci veniva proposto da anni e anni e questo è croce e delizia del disco.
In un’epoca storica dove purtroppo la maggior parte delle cose si basano sul più becero mordi e fuggi e dove la musica viene danneggiata se non è fruibile nell’immediato; risultato di una società che grazie a internet è abituata ad avere tutto e subito senza assaporare un minimo ciò che ha; un disco come “Ghost” rischia di essere messo da parte vista la sua effettiva complessità nella fruizione sia per la durata che per la tecnica: un disco power atipico per via delle decine di sfaccettature che contiene al proprio interno dovute alle influenze progressive in ogni singolo pezzo, come l’intricata e visionaria “Hell is Calling“, il quale intro ricorda a sprazzi i Dream Theater di altri tempi ma gonfi di anabolizzanti, oppure la melodica ma mai scontata “Limelight Dreams” di chiara matrice hard rock dalle solide basi AOR.
Queste più svariate influenze possono lasciare spiazzati gli ascoltatori più superficiali tanto è che pure a noi sono serviti decine di ascolti prima di capire in maniera adeguata quali erano i binari che il platter segue e quale sia il focus core finale della band.
Tuttavia per chi di musica ci vive e si sofferma su ogni singola nota, lentamente, col passare degli ascolti, ogni singola traccia inizia a prendere una forma ben precisa che va a incastrarsi in maniera imprescindibile all’interno di un puzzle virtuale creando una sorta di strada all’interno di un labirinto fatto di solchi digitali attraverso i quali l’ascoltatore passa dall’inizio alla fine del disco senza più smarrirsi.
Dicevamo differenza con i due precedenti platter, cosa più che lecita quando sono trascorsi dieci anni, anche se non siamo davanti ad alcun tipo di rivoluzione o disconoscimento circa quello che fu la band negli anni novanta ma lo definiremo più che altro una presa di coscienza e maturazione di quattro ragazzi che ora hanno superato gli “anta” e sanno perfettamente cosa vogliono fare da grandi e lo fanno per il mero gusto di farlo.
Basta pensare al break centrale di “Earth is Alive” che fa di un brano power progressive canonico l’ennesima hit all’interno di una collezione di espressioni di bravura, ispirazione e tecnica più unica che rara.
Non c’è un momento di fiacca e lo si evince dal fatto che nella seconda metà del disco la band infila una serie di canzoni pazzesche d’altri tempi che superano di gran lunga la qualità media delle band di pari genere; basta pensare a piccoli capolavori come “Journey Through the Stars“, dove i nostri ci hanno ricordato nella struttura e negli arrangiamenti, vagamente i Rage del periodo più sinfonico (tralasciando l’esperimento XIII, quelli con il Victor Smolski più ispirato per essere precisi), la maestosa ed epica “Break the Sky” che segue un’anda progressiva e melodica che sfocia in un ritornello di facile memorizzazione arioso ed epico.
La pesante “Higher” è l’ennesima nuova sfaccettatura della band che sa rendersi pericolosa con i suoni più cattivi dal retrogusto soft thrashy intrecciati e ammorbiditi da quel flavour progressive che aleggia in tutta la durata del disco che, se ai primi ascolti crea un pizzico di confusione, si rivelerà fondamentale per l’economia del disco nella lunga durata.
Pazzesca la struggente “Somewhere Far Beyond“, uno degli apici del platter grazie a una interpretazione vocale che sfiora più e più volte la perfezione.
Come spesso accade in questi ultimi anni soprattutto anche dischi suonati ottimamente vengono penalizzati da delle produzioni inappropriate al limite dell’esagerato in quanto a compressione di suoni e artificiosità; non è il caso di “Ghost“ che nonostante suoni ovviamente moderni, lontano anni luce dal già bellissimo sound che ci offriva il capolavoro “In Shadows Lost from the Brave” non utilizza soluzioni moderniste e invadenti, fuori luogo per un genere il power metal in generale. I suoni sono perfettamente bilanciati e potenti dove ovviamente la voce ricopre un ruolo primario senza mai sommergere il resto degli strumenti anche se in alcuni punti pare essere leggermente troppo patinata per via di qualche eccessivo ritocchino in studio, ma pure in questo caso è questione solo per le orecchie più allenate ed è impercettibile al resto degli utenti.
Tirando le somme “Ghost” è un disco che viene difficile da valutare. Abbiamo di fronte una band che torna in pista dopo dieci lunghi anni priva del suo co-fondatore Ronny Milianowicz ma che è saputa reggere alla fatidica prova del tempo confezionando un ottimo disco di power progressive metal di caratura elevata che va a piazzarsi direttamente tra le migliori uscite nel genere sino a oggi in questo 2019.
Il sapersi rinnovare senza snaturare il proprio stile grazie a un soundwriting vario, complesso ma mai prolisso e soprattutto grazie alla complessa assimilazione che regala a ogni singolo pezzo una longevità maggiore a qualsiasi altra produzione simile dei giorni d’oggi, fa si che il ritorno dei Saint Deamon non si limita a fare il semplice compitino ma a portare ad un altro livello la proposta artistica del combo.
Con la speranza che per la band di Orebro questo come back non sia un fuoco di paglia, ci auguriamo che finalmente questa band riscuota il successo che merita e che presto riusciremo nel vederli calcare le assi di qualche palco nelle nostre zone.