Recensione: Ghost Empire
Non in ordine di anno di nascita ma, più probabilmente, in quello di popolarità: Heaven Shall Burn (1996), Neaera (2003) e poi… Caliban (1997), ovvio!
L’armata *-core teutonica fa letteralmente paura, data la grande classe messa in campo dai tre campioni appena menzionati. Un trittico che ha profondamente segnato la scena del death metal mischiato all’hardcore nelle sue derivazioni deathcore e metalcore, portando ai grandi eventi estivi, innanzi ai loro palchi, deliranti folle oceaniche. Riuscendo a imbastire un discorso legato alla tradizione teutonica, cioè inserendo in esso – fra le righe – gli elementi stilistici necessari per distinguerlo dal *-core inglese (Devil Sold His Soul) e quello americano (Whitechapel). In particolare, i costumi tedeschi si possono principalmente rinvenire nell’altissima dose di potenza profusa con precisione maniacale. Nel massimo equilibrio del rapporto forza/diligenza, cioè. Equilibrio che ha reso leggenda il power tedesco, quest’ultimo preso nella sua totalità temporale dagli esordi (Helloween) sino ai giorni nostri (Primal Fear).
I Caliban si basano molto su questa magnifica sinergia fra potenza e metodicità, sciorinando un sound assolutamente perfetto; evidente frutto sia di un’irreprensibile professionalità, sia della lunga esperienza in materia. Un sound il cui livello qualitativo è raggiungibile da ben poche altre band seppure ce ne siano ormai a bizzeffe, a praticare il metalcore. Anzi, si può affermare che i Campioni di Essen siano una delle migliori se non la migliore rappresentazione del metalcore stesso al 2014. Il suono di “Ghost Empire”, ultimogenito di una stirpe di nove full-length, difatti, come spinto da invisibili reattori esce letteralmente dagli speakers, travolgendo l’uditorio con la sua ricchezza di ottave e, soprattutto, con l’omogeneità fra di esse. Ciascun strumento, voci comprese, è tagliato dalla ghigliottina *-core in maniera così precisa da poterne percepire ciascuna nota, nella totale immersione dei watt erogati da Denis Schmidt e compagni.
Essendo “Ghost Empire” un vero e proprio manifesto metalcore, è chiaro che in esso non si devono cercare spunti progressisti. Al contrario, pare sia stato fatto di tutto per fissare, definitivamente e nel miglior modo possibile, i dettami di uno stile spesso e volentieri – ingenerosamente e presuntuosamente – snobbato dai puristi del metal estremo. Uno stile che, sì, in taluni casi pare cucito addosso a un pubblico adolescenziale ma che, in casi come questo, si rivela adulto, completo e in grado di dar luogo a grandi canzoni, a intense sensazioni.
Ed è qui che insiste il maggior pregio del platter: la fluidità dei brani e la loro quasi incredibile facilità nell’arrivare a segno, rimbombando a lungo nella scatola cranica in virtù della loro eccellente musicalità e orecchiabilità. Con il loro durissimi breakdown i Caliban pestano duro, non facendosi peraltro nemmeno spaventare dai bombardamenti al blast-beats. Occorre però sottolineare che essi, nondimeno, non sono mai riusciti a essere così costanti, lungo la durata di un platter, nello sparare nelle orecchie dei fan così tanti ritornelli di grande valore assoluto. Allo stupendo incedere vagamente malinconico di “Good Man”, infatti, si possono tranquillamente aggiungere altre chicche. Come l’opener “King” e “Chaos – Creation”, un uno-due che stenderebbe chiunque grazie allo stordente connubio fra l’impatto tremendo dei riff, granitici, e le improvvise aperture melodiche, quasi trasognanti, dei loro cori. E, ancora, “Wolves And Rats”, in cui compare nuovamente quel magone più sopra accennato, che ricorda un po’ i fenomenali Devil Sold His Soul. Senza dimenticare “yOUR Song”, tanto ruffiana quanto capace di trivellare senza pietà il cervello grazie al suo refrain da stadio; né tantomeno l’hit “nebeL” e la rutilante, struggente “I Am Ghost”.
Diciassette anni di carriera sono tanti. Onore ai Caliban per averli percorsi senza mai mollare, senza perdere fiducia nei propri mezzi. Raggiungendo, con “Ghost Empire”, un punto davvero elevato del panorama metalcore moderno.
Finalmente bravissimi!
Daniele “dani66” D’Adamo
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