Recensione: Ghost Mile
Non sempre i migliori dischi di un gruppo sono i primi da loro composti e non sempre le svolte stilistiche sono sinonimo di delusione. Al contrario, a volte cambiare porta una ventata d’aria fresca, una nuova ispirazione sorretta dall’esperienza dei lavori passati ed è proprio questo che sembra essere capitato ai Voyager.
Formatisi nel 1999 e arrivati al loro sesto album, i Voyager hanno abbracciato definitivamente un cambio di genere che era già nell’aria negli ultimi lavori. Quindi, abbandonata del tutto la componente power neoclassica e quella techno-pop anni Ottanta (questa forse non completamente), la band australiana si è gettata in un progressive metal molto moderno che guarda ai gruppi degli ultimi anni e alla scena djent. Precisiamo subito che non si tratta di uno di quegli album che vogliono esasperare una formula già collaudata dal altre band cercando solo di sembrare più estremi. Con Ghost Mile i Voyager hanno invece il merito di aver saputo assimilare nuove influenze ma senza voler strafare, facendo attenzione tanto ai riff quanto alle melodie. Abbondano dunque le accordature abbassate, i ritmi sincopati, una sezione ritmica precisa e potente (merito anche di una produzione perfetta per questo genere), insieme a una buona dose di groove, il che non guasta mai. Dall’altra parte arpeggi di chitarra pulita dai toni spaziali si intrecciano con le numerose parti di pianoforte e leggeri tappeti di tastiera, contribuendo a dare respiro alle composizioni.
Le coordinate vengono chiarite subito e non assistiamo a grandi variazioni durante il corso dell’album, ma piuttosto a un susseguirsi di brani che vogliono arrivare all’ascoltatore in modo diretto, senza troppi fronzoli, nonostante dietro a ognuno di questi ci sia un’ottima tecnica. I pezzi si rivelano tutti di buona qualità anche se, come sempre, qualcuno si distingue tra gli altri. “Misery Is Only Company” svetta subito per uno splendido ritornello, probabilmente il migliore dell’album: potremmo definirlo il perfetto biglietto da visita dei Voyager, o, almeno, di questa loro ultima versione, che regala belle melodie, riff efficaci, tastiere che dettano le linee guida pur restando in secondo piano. In effetti alla band servirebbero più canzoni memorabili come questa, anche se, ripetiamolo, la qualità c’è in tutti i pezzi. Molto ben riuscita anche la title track, da ascoltare insieme alla precedente “To the Riverside”, che funge da introduzione ma è senza dubbio uno dei momenti migliori: qui la coppia chitarra pulita-pianoforte cui si accennava lavora in perfetta armonia, tessendo dolci arpeggi dalle atmosfere notturne. Un pezzo da ascoltare sdraiati fissando il cielo stellato, accompagnati dalla limpidissima voce di Daniel Estrin, che peraltro si trova perfettamente a suo agio in questo contesto. Da segnalare poi “As the City Takes the Night”, brano di chiusura che vanta uno dei migliori riff del disco, djent fino al midollo. E se la vena pop sembrava accantonata riaffiora per pochi minuti ma in modo esplicito su “This Gentle Earth (1981)”, canzone piacevole, orecchiabile senza mai essere troppo commerciale.
Il risultato è positivo in definitiva. I Voyager sembra stiano maturando bene, e ci consegnano un album ben fatto, magari non rivoluzionario ma che, d’altra parte, non fa il verso a nessuna band in particolare. La musica scorre senza risultare pesante anche grazie a un minutaggio contenuto, i tradizionali 45 minuti che sono sempre una giusta via di mezzo. Uno dei pregi maggiori di Ghost Mile è di essere un disco divertente, energico e vitale, con una serie di pezzi che di certo renderanno dal vivo. Quindi se amate il genere in questione date una possibilità ai cinque di Perth, potreste scoprire che hanno qualcosa di valido da offrirvi per i prossimi tempi, un album onesto, che coinvolge e si riascolta volentieri.