Recensione: Ghost Reveries
Doveva arrivare ed è arrivato, inesorabile: il momento X anche per gli Opeth.
Quel momento in cui tutto sembra essere stato già detto, espresso in un sound,
in un quadro generale che dipinge al 100% la situazione di un gruppo di artisti
dotatissimi, ma che inevitabilmente prima o poi devono assestarsi. Un momento
che contraddistingue non un gruppo metal in quanto tale, ma un qualsiasi essere
umano dotato di creatività, che abbia raggiunto la propria vetta personale e la
cui ricerca debba trovare nuovi sbocchi. E’ una fase da cui alcuni escono con
intelligenza e coraggio; altri sprofondano nello sconforto, provando terribili
esperimenti, che avrebbero avuto buon esito se solo fossero stati più ponderati
e se il loro pubblico (soprattutto) avesse avuto una diversa ‘forma mentis’; una
terza categoria, infine, cerca il compromesso: rimescolare, cambiare leggermente
le dosi ma usando tutti gli ingredienti della propria dispensa senza provare
nessuna nuova spezia, e cercare di trarne il miglior risultato possibile.
Anche per questo ci vuole un talento sconfinato, o il gruppo potrebbe
spegnersi come sembra siano destinate quelle spettrali candele presenti sulla
cover di Ghost Reveries. Ma, per fortuna, con gli svedesi il
problema, almeno per il momento, non si pone: riescono infatti a costruire il
disco più intelligente, e con questo intendo dire anche più ragionato,
progettato e voluto, della loro intera carriera. Solo che è impossibile non
eseguirne una critica compiuta senza ricorrere ai passati album come termine di
confronto: perché, come avrete intuito nella lunga intro a questa recensione,
gli Opeth non inventano più nulla o quasi; ci servono una cena già ben
conosciuta, ma ne raffinano il gusto alla massima potenza.
La prima sensazione che ci assale, all’ascolto, è rossastra, come la
splendida copertina di Still Life, il loro album più progressivo
(escludendo l’anomalo Damnation, cui va dedicato un discorso a
parte): i rimandi a quel disco sono praticamente continui lungo tutto lo
scorrere di queste otto lunghe canzoni. Violenza, rabbia ma anche improvvisi
squarci di luce, nebbia diffusa ma anche acuti emotivi improvvisi. C’è spazio
per qualsiasi soluzione già sperimentata su questo album, ed il tutto viene
sapientemente dosato per un risultato magnifico, va detto: tra pezzi un po’
canonici, per quello che è l’elevatissimo standard della band, come Ghost of
Perdition, e vette di progressione di nuovo uniche, come ad esempio The
baying of the hounds e la sua parte centrale, o l’angosciante ninna-nanna Atonement;
per tornare a quanto sentito su Deliverance, ai suoi sprazzi di
energia ferale, con The grand conjuration. Tutto è un ricordo, ed allo
stesso tempo tutto è nuovo. Ed è una gioia poter esprimere la mia difficoltà
nel descrivere in poche parole l’essenza di un pugno di canzoni: capita solo coi
veri capolavori, con quei dischi che trascendono le logiche di business e
mercato e si affidano alla pura capacità espressiva.
Il che non toglie che, a quanto pare, dagli Opeth ormai sappiamo cosa
aspettarci, nel bene o nel male: l’aggiunta delle ariose tastiere di Per Wiberg
è solo contorno, per quanto fondamentale per le atmosfere che, comunque, Mikael
e compagni sapevano già creare perfettamente. Una sicurezza: e con ciò
perdiamo il gusto della continua scoperta, ma si sa, non poteva continuare per
sempre.
Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli
Tracklist:
1. Ghost of Perdition
2. The Baying of The Hounds
3. Beneath The Mire
4. Atonement
5. Reverie / Harlequin Forest
6. Hours of Wealth
7. The Grand Conjuration
8. Isolation Years