Recensione: Gidim
Avete mai ascoltato il totale silenzio dello spazio profondo? Probabilmente no, il che è normalissimo, ma tant’è che ci dicono che in quel buio pesto interrotto soltanto dal lontano bagliore delle stelle, oltre all’assenza di gravità e ossigeno, ci sia anche una completa assenza di suoni e rumori. A quanto pare, in prossimità degli anelli di Saturno la musica è un’altra, è al massimo del volume e bombardata da una moltitudine di note che faranno la gioia di chi è cresciuto a pane e Vektor, per non parlare di chi conserva in un posto speciale della propria collezione i più recenti nomi di Archspire e Allegaeon. Parliamo di metal estremo in ogni senso, death violento e tecnico quasi all’inverosimile. Fortuna che gli americani Rings Of Saturn non sono gente alle prime armi e dal 2009 hanno sfornato quattro dischi, uno più funambolico dell’altro. Gidim è il quinto e sta per la definizione sumera delle ombre degli spiriti dei morti, ma sappiate che qui, in quanto a concretezza sonora, ce n’è davvero tanta. Tre quarti d’ora in cui i vostri timpani saranno messi alla prova, non soltanto dal volume di esecuzione, ma da ritmiche portate all’estremo di un binomio basso/batteria a dir poco eccitante – a proposito, alla batteria c’è il session man Marco Pitruzzella, autore di un lavoro talmente folle da farci domandare se sia umano o stretto parente di uno scherzo genetico con otto tentacoli. Disumano.
Il sound dei Rings Of Saturn, qualora non li abbiate ancora incrociati sul vostro cammino, è quello che la splendida copertina è in grado di suggerire. Una bolgia sonora che si spinge oltre ogni limite umanamente immaginabile, con chitarre che adorano stridere sull’orlo del dissonante e tessere feroci ritmiche sotto la profonda e gutturale voce di Ian Bearer. Detto questo, aggiungete la limpida produzione figlia di Nuclear Blast e suoni di batteria che pendono verso un gusto più acustico di quanto si trovi solitamente in questo genere e Gidim ha un’identità ben definita, proprio come la prima metà del disco, in assoluto quella più ricca di idee.
Pustules apre il nostro viaggio interstellare come una opener ha il compito di fare, ovvero presentando i tratti principali del sound dei Rings Of Saturn, senza alcun tipo di indugio, con un solo di chitarra meraviglioso e cercando di imprimere nei suoi 4 minuti e mezzo, la vera essenza della band, pronta però a sviluppare il proprio “io” canzone dopo canzone. Ne è un esempio lampante la successiva Divine Authority, con chitarre sull’orlo della dissonanza e ritmiche che corrono a velocità iperboliche, come del resto accade per Hypodermis Glitch, che dalla sua aggiunge anche un bel groove, utile a prendere fiato quanto basta per rimettere giù la testa e fronteggiare la brutalità di Bloated And Stiff, un brano non semplice da assimilare, ma che se ascoltato a dovere rivela migliaia di spunti tra stacchi, ripartenze e quell’ombra di caos cosmico che getta per introdurre l’ottima Tormented Consciousness, uno degli episodi migliori dell’intero disco. Questa è la definizione di violenza allo stato brado, un riff che maciulla ogni più lontano desiderio di analogico e che sfrutta quel feeling digitale che permea l’album dall’inizio alla fine.
In ordine sparso abbiamo brani più canonici, come The Husk e Genetic Inheritance, mentre sul finire del cd inizia a farsi sentire la fatica accumulata di fronte ad una simile apocalisse musicale (Face Of The Wormhole) e se la title-track strumentale chiude il nostro viaggio cosmico in maniera non necessariamente superflua, c’è ancora il tempo – e la voglia – di tornare su Mental Prolapse, la canzone che più di ogni altra mi ha catturato ed è stata in grado di tormentarmi per giorni e giorni. L’attacco è quello di un trip psichedelico anni 80, poi ci si ricorda che a suonare siano i Rings Of Saturn, ma la follia viene ripresa più avanti, iniettandoti nella corteccia celebrale qualcosa che non ti saresti mai aspettato e dal quale non riesci a staccarti. Forse avrebbero potuto insistere di più, magari addirittura peccando nel prendere una direzione a dir poco insolita per una tech-death metal band, ma “Grande Giove” (e non me ne voglia Saturno in questo caso) se questo pezzo è capace di scuoterti dalla sedia. Quella di Gidim è un’esperienza forte, estrema e che ti mette alla prova, in tutti i sensi. Meglio se presa per gradi, è comunque in grado di dire la sua in un genere preso d’assalto da virtuosi provenienti da ogni angolo del pianeta, ma nella migliore tradizione a stelle e strisce sembra metterci del suo e spingere tutto ancora più oltre i limiti di ciò umanamente ci pare concepibile. Un disco più che convincente e capace di solleticare alcune corde che spesso vengono tralasciate da altri. Preparatevi, alzate il volume e partite per l’angolo più profondo e rumoroso dell’universo.
Brani chiave: Divine Authority / Tormented Consciousness / Mental Prolapse