Recensione: Gleb Kolyadin

Di Fabio Martinez - 15 Aprile 2018 - 10:00
Gleb Kolyadin
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2018
Nazione:
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90

Mi capita spesso di consigliare album a un mio caro amico, molte volte per sua stessa richiesta, ma, puntualmente, nulla lo emoziona. Non perché non sia abituato al prog, nonostante comunque ascolti altro, ma proprio perché è un intenditore di musica e un buon chitarrista. È come se cercasse sempre qualcosa di totalmente nuovo e rivoluzionario, pur nella inconsapevole convinzione che mai nella musica contemporanea questo possa più accadere. Qualcosa di ancora più sorprendente mi capitava con il mio maestro di chitarra, un vero virtuoso e dal talento senz’altro notevole. Qualsiasi cosa gli facessi sentire, per quanto nuova, per lui era comunque già sentita o niente di sorprendente e nella maggioranza dei casi me la replicava, per poi finire con sue improvvisazioni assolutamente notevoli e per me dei grandi regali.

Cos’è peggio, secondo voi, emozionarsi o restare impassibile di fronte a un buon disco, anche se non un capolavoro? Qualunque possa essere la vostra risposta, immagino che conveniate con me, quando penso che l’importante è provare emozione nell’ascoltare musica. Non intendo dire che determinate band sono più emozionanti di altre in assoluto, ma penso semplicemente che moltissime volte siamo noi a essere incapaci di provare certe sensazioni, a essere travolti da alcuni autori o album. Quanto eravamo felici da ragazzini, quando usciva un nuovo album o come riuscivamo ad ascoltare un lavoro milioni di volte, provando sempre sensazioni diverse? Io non credo, come delle volte mi pare capire dalle parole del mio amico, che la musica, il prog nello specifico, non abbia più nulla di nuovo da dire, ma che noi dobbiamo sempre mantenere una sana ingenuità che ci consenta di emozionarci anche ascoltando qualcosa di molto complesso, qualcosa, apparentemente o meno, di non rivoluzionario, qualcosa di delicato ed elegante.

Proprio in questo modo, delicato, complesso ed elegante, mi sento spinto a definire il primo album da solista del pianista del duo russo iamthemorning, Gleb Kolyadin. Gleb, così come la sua collega Marjana Semkina, già dal primo loro lavoro in coppia ha dimostrato sorprendente tecnica, talento e gusto, valori che ha perfino accresciuto e maturato nei successivi due album con gli iamthemorning. Non tanto, però, da poter fare a meno di ricorrere al crowdfunding, per finanziare, appunto, il suo album solista, intitolato semplicemente Gleb Kolyadin.

Fortunatamente per lui (specialmente per lui) e per noi, il crowdfunding è ovviamente andato a buon fine, così, a inizio 2018, è uscito per la Kscope questo lavoro di 13 tracce, prettamente strumentale e guidato da un piano (inconfondibile per chi conosce gli iamthemorning) dall’incedere delicato ma insistente, dolce e malinconico, certamente classicheggiante e per questo, o nonostante questo, capace di amalgamare con grande piacevolezza gli strumenti dei numerosi e prestigiosi ospiti. È facile capirlo già dall’opener, “Insight“, che convince al primo ascolto e che mostra subito l’anima progressiva dell’album. Qui Gleb al piano affianca le tastiere e, seppur accompagnato da Gavin Harrison (King Crimson, Porcupine Tree) e da Nick Beggs (Steven Wilson), fa capire di essere lui il protagonista non solo del brano ma dell’intero album. Anche quando, infatti, la voce di Mick Moss (Antimatter) incanta per la sua timbrica in “Astral Architecture” o quando, nella jazzeggiante (ma sempre prog) Kaleidoscope, si eleva il quanto mai calzante assolo di flauto di Theo Travis (Robert Fripp, Porcupine Tree e Steven Wilson) o come quando in “Storyteller” a Gleb si uniscono le tastiere dell’ospite forse più ingombrante, Jordan Rudess (Dream Theater). Non mi viene facile, poi, preferire un brano nel lavoro di Kolyadin ma, mentre lo ascolto, intimamente sento sempre più la voglia che arrivi l’ultima traccia, la seconda con Steve Hogarth (Marillion) – già presente nella bellissima Confluence – quella “The Best of Days” che mi era capitato di sentire mesi prima che uscisse l’album, restando, lo ammetto, un po’ spiazzato dal suo cantato così soffice e caldo. Forse ciò che a prima vista potrebbe sorprendere maggiormente parrebbe essere la capacità di Kolyadin di sentirsi a suo totale agio e vero padrone della scena, suonando con colleghi tanto illustri; ma certamente quello che stupisce davvero è quanto Gleb sia libero di navigare, nel suo profondo, anche con Chopin (si vedano” Confluence” e “Constellation/The Bell“), Emerson (“Penrose Stairs”) e Béla Bartók (“White Dawn”).

All’inizio di questa recensione ho parlato di emozioni e queste sono il colore che più risalta nel primo lavoro solista di un autore che sarà sempre più protagonista, con vivo merito, del prog contemporaneo. Gleb Kolyadin forse agita e scuote non solo le corde del suo strumento ma quelle più intime dell’ascoltatore, perché si è offerto con fare pacato ma sempre più penetrante e perché, soprattutto, fa una musica d’incanto e senza tempo, libera da pensieri e ingenua come un fanciullo.

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