Recensione: Glory to the sacred land

Di Alessandro Rinaldi - 27 Luglio 2023 - 0:58

Bloodshed Walhalla è un progetto tutto italiano formato nel lontano 2006, che vanta 6 full length che hanno preceduto Glory to the sacred land.

L’artwork, è una bellissima immagine che sintetizza al meglio lo spirito artistico di Drakhen: cielo e terra si confondono tra i ghiacci, e una flotta di Drekar che salpa verso nuove avventure e terre da razziare, scortati da corvi che osservano dall’alto. Il disco è composto da sei canzoni – di cui due cantate in italiano – per Drakhen, questo aspetto rappresenta una novità – per una durata complessiva che supera di poco l’ora di ascolto.

Da un punto di vista meramente musicale l’album si discosta da quanto fatto dal  polistrumentista lucano, prendendo le distanze dal sentiero tracciato, lasciando da parte il lato più acustico e ricorrendo maggiormente ad un lavoro di tastiere. Anche le chitarre, a sprazzi, hanno un suono più heavy, trovando una sua via musicale del tutto personale

Si parte forte, con Fly my raven, il pezzo più “duro” del disco, con un blast beat serrato, che comunque lascia spazio alle armonie delle chitarre, con riff molto piacevoli, dai toni epici ed evocativi e con una bella intro di tastiere. La titletrack, Glory to the sacred land, ha una piacevole  fraseggio introduttivo di chitarre heavy che contribuisce a determinarne la struttura, seguendo i primi passi della stessa. A star of victory è molto orecchiabile, con un motivetto che entra facilmente in testa che fa pensare ad un dreki che salpa verso nuove terre da razziare, mentre cori di rematori ci intrattengono durante il viaggio. Non sei tu e Il lago sono le prime canzoni che Drakhen canta in italiano: lunghissime, entrambe di 12 minuti, con sali-scendi musicali che allungano la durata dei brani ma tengono l’ascolto vivo e attivo. Si chiude in gran bellezza, con il brano più piacevole di questo lavoro, Rise and fight glory and victory, in cui si palesa un’oscura epicità tra cori solenni.

Glory to the sacred land è un buon disco, ma costituisce un passo indietro rispetto a Second chapter. Da un punto di vista musicale, Drakhen ha il coraggio di osare dando un maggiore spazio alle tastiere, vere protagoniste indiscusse; una scelta che fortifica le atmosfere e dà una sensazione di solarità e allegria, quasi un clima “cameratesco” da rematori, penalizzando però l’aspetto più cupo ed introspettivo del viking metal. Questa scelta ne limita le potenzialità, perché, nella sua enfasi, produce un effetto diluitivo sulle canzoni che fa perdere forza e potenza di alcune trame particolarmente azzeccate. Un altro piccolo dettaglio – che, come insegna il Diavolo, fa la differenza – è la scelta di cantare in italiano: tematiche così legate alle terre scandinave, mal si addicono al retaggio culturale della nostra lingua, e anche al suo suono, più dolce, armonico e soave rispetto a quello delle lingue scandinave.

Glory to the sacred land riesce comunque a comunicare la passione di Drakhen, un artista sicuramente valido e coraggioso, capace di azzardare e uscire dalla sua confort zone.

 

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80