Recensione: Gnavhòl
L’omonimo dei Nordjevel, datato 2016, fu uno dei migliori debutti in ambito black degli ultimi anni e vi consigliamo caldamente di recuperarlo. Funzionava tutto in quell’album: produzione da denuncia, brani da assalto frontale totale e una massiccia dose di fierezza e melodia che contribuivano a tracciare un sound molto più che solido e facevano presagire un roseo futuro. Inspiegabilmente, la band norvegese, col seguente Necrogenesis, virò verso coordinate ancora più death ed estreme, perdendo in parte le componenti vincenti del debutto. Purtroppo o per fortuna, Gnavhòl, terzo squillo di tromba di queste diaboliche menti, prosegue sulla linea del predecessore senza muoversi di un millimetro.
Se i Nordjevel degli esordi erano in tutto e per tutto un gruppo black con elementi death, ora è l’esatto contrario, e la cosa fa storcere il naso perché questi ragazzi potrebbero fare molto meglio di quello che oggi offrono. Gnavhòl in ogni caso non è affatto un disco da buttare, anzi, preso singolarmente e senza il fattore nostalgico degli esordi, è un album discreto e che nella breve distanza può regalare qualche soddisfazione.
La tracklist è composta da dieci brani per quasi cinquantacinque minuti di musica senza intermezzi; uno dei difetti principali di Gnavhòl è senza dubbio questo. Vi è spesso, nell’album, una tendenza ad allungare il brodo che nella maggior parte dei frangenti non è necessaria. Parliamo di un disco dove non si centra praticamente mai il riff, la memorabilità in questo senso risulta piuttosto scarsa; a che pro quindi appesantire con dei brani da dieci minuti che di luciferino hanno poco o nulla? L’opera, ovviamente, funziona meglio quando ha il dono della sintesi, e lì sono dolori.
La prestazione alla batteria è qualcosa al limite dell’umana comprensione nei brani veloci ed è supportata da chitarre abrasive e liriche al vetriolo che variano dallo scream al growl più cupo; qui si pesta come se non ci fosse un domani e siamo certi che dal vivo l’impatto sarà allucinante. Quello che manca a tutto questo ben di Satana è la ciccia, il famoso arrosto. I riff risultano praticamente tutti di passaggio, senza sussulti; si rimane sul death di matrice slayeriana con qualche inserto black, nulla più, nulla meno. Questo, accompagnato dalla pesantezza della tracklist, fa si che la longevità del tutto sia minima anche dopo parecchi ascolti. Il disco purtroppo fatica a crescere e, volenti o nolenti, si va a mettere su il debutto per sentirne l’abissale differenza, soprattutto per quel che riguarda il songwriting.
Se prendessimo ad esempio in esame Viperous dei Vredehammer, cioè un disco death/black di alto livello a caso, il paragone non reggerebbe e porrebbe i Nordjevel in netto svantaggio. C’è ancora della strada quindi da percorrere per la maturità completa e soprattutto si tratta di capire fino a che punto possa pagare l’intraprenderla in questo modo. Si sfata purtroppo la consuetudine del terzo album e si rimanda a tempi migliori. Peccato.