Recensione: God Damn Evil
Una delle band protagoniste del metal melodico degli anni Ottanta che sembrano stare godendo, in questo periodo, di un’autentica seconda giovinezza creativa (anche grazie all’attenta conduzione delle uscite discografiche da parte della Frontiers Music) sono certamente gli Stryper. La formazione statunitense di “christian rock” (talvolta, perlomeno negli eighties, ingiustamente sottovalutata se non addirittura irrisa da una parte della critica – avente di solito una maggiore… simpatia per il diavolo – per i suoi testi e la sua iconografia a sfondo religioso), infatti, da qualche anno, sta costantemente regalando al proprio pubblico lavori di qualità consistente. E non si tratta solo di live o rielaborazioni dei soliti dieci-classici-dieci, ma di LP d’ inediti che hanno poco da invidiare ai loro dischi del passato.
Non fa eccezione il nuovo “God Damn Evil” (il cui titolo lo attesta fieramente allineato sulle tematiche religiose care alla band), il quale, al pari dei lavori immediatamente precedenti, non lesina – tutt’altro – energia e grinta da ventenni. Tra l’altro, si tratta del primo platter che vede dietro le quattro corde del basso Perry Richardson (ex-Firehouse) al posto di Tim Gaines.
“God Damn Evil” sciorina, difatti, un gruppo di canzoni che conciliano l’aggressività ed il groove di certo metallo contemporaneo con una serie di riferimenti – qui più marcati che nel recente passato – a quelle istanze melodiche e quell’omaggio all’heavy più classico che contraddistingueva il gruppo negli anni Ottanta del secolo scorso.
Entrambe le influenze si fondono in brani come Take It To The Cross (un metal marziale ed arrembante come da tradizione della band, con le sue chitarre che si inseguono, qualche bel momento di heavy contemporaneo ed una voce che ora urla ora disegna efficaci melodie) e God Damn Evil (heavy rock innodico come ai bei tempi, con asce ora taglienti ora alle prese con riff belli rotondi le quali, insieme al canto, dipingono uno tra i brani più accattivanti e coinvolgenti del lotto).
Più devoti ad un suono maggiormente classico i singoli Sorry (midtempo hard rock melodioso e a tratti solenne) e Lost (ancora dalla decisa componente melodica, ben condotta dalla voce angelica di Michael Sweet, su un tempo moderati, ma con una rapida impennata nel finale). Lo stesso può dirsi di You Don’t Even Know Me, cadenzata, solenne, tesa ma comunque ariosa, e The Valley, più dolce ed articolata pur tra muri invalicabili di riff e di assoli della sei-corde, e, infine, di Sea Of Thieves, una travolgente cavalcata hard’n’heavy.
Sul versante più hard, sono da citare The Devil Doesn’t Live Here, altro metal arrembante e potente tra chitarre abrasive e basso e batteria arrembanti ed implacabili, e Own Up, hard rock ai limite del metal più aggressivo con momenti catchy pur in un contesto “tosto”.
Il fronte delle ballate, immancabile, non si abbandona, però, a svenevolezze di sorta, come dimostrano sia Can’t Live Without Your Love (lento non melenso e molto più potente dei soliti slow acustici, nonché ingioiellato da pregevoli inserti di chitarra elettrica) e Beautiful, semiballata movimentata e assolutamente non indolente).
I fans degli Stryper, in buona sostanza, possono approcciarsi tranquillamente e con fiducia a questo “God Damn Evil”, nel quale i musicisti americani sventolano, ancora una volta, ben alta la bandiera del loro rock perfettamente in equilibrio tra tradizione ottantiane di grinta e melodia e “cattiva” modernità. E non mancheranno certamente la ghiotta occasione di ascoltare i propri beniamini come headliner della prima giornata del Frontiers Rock Festival di quest’anno, evento che avrà luogo il 28 e 29 aprile a Trezzo (Milano).
Francesco Maraglino