Recensione: God Has No Name
Dalla solare Spagna giungono improvvise le tenebre, che accompagnano, spingono il secondo album degli Hex, “God Has No Name”.
Una band atipica, che miscela doom e death metal come è da tempo in uso un po’ dappertutto. Teoricamente nulla di nuovo. Allora, qual è la novità? Quella che insiste nel fatto che la potenza sia quella del death. Affermazione senza senso se non si riflette abbastanza sulla circostanza che è in genere il doom a defluire dalle parti del death ma non il viceversa.
Un approccio pertanto inusuale, che materializza uno stile piuttosto singolare. Magari non originalissimo ma decisamente indicativo di un marchio di fabbrica dai contorni ben chiari, distinguibile con facilità in mezzo al mucchio. Ricco di personalità, insomma. Come del resto è perpetuamente rimarcato dal buon growling di Jonathan. Possente e stentoreo, sottolinea le linee vocali con piglio feroce e un dose non indifferente di aggressività. Altrettanto poderoso è il riffing, in grado di generare quel mood tetro, in bianco e nero, così caro al combo basco. Sarà forse che le sue terre natie siano ricche di tradizioni centrate sul potere del buio e sulle creature delle foreste montane, ma il suo cuore, la sua anima paiono davvero accordarsi con il mondo dell’oscurità. Circostanza sottolineata da riff quadrati, a volte quasi thrashy benché fondamentalmente atti a alzare una fitta, gelida nebbia che nasconde alla vista la maggior parte delle cose.
Non si contano gli inserti ambient, studiati per innalzare il livello di visionarietà del sound che, a questo punto, più considerarsi moderno e attuale, capace di rinnovare un genere ibrido lasciando in ogni caso inalterati alcuni dettami stilistici, per un’operazione che gli anglosassoni usano individuare con il termine melded.
Tuttavia, gli Hex paiono dare il meglio di sé quando il drumming di Asier alza l’asticella della rapidità delle battute commisurate all’unità di tempo (BPM). Cosa che accade nella violenta e furibonda ‘Apocryphal’, fast-song che mostra l’abilità dei Nostri a sapersi districare, e per bene, quando i suddetti BPM aumentano nel loro valore assoluto. Il tutto, senza che si perda per strada qualche dettaglio stilistico, anzi.
Sfortunatamente, detto brano è in pratica l’unico davvero interessante fra i sette che compongono il platter, data la sua purezza nella commistione fra death e doom ma non solo, anche per un main riff così azzeccato da far ribaltare un carro armato. I fulminanti assoli lacerano le carni sopravvissute all’attacco frontale, per una completa demolizione.
Il resto delle tracce, difatti, appare privo di quel barlume di genialità sì da innalzarle a episodi di singolarità da mandare a memoria. Forse a ciò contribuisce l’idea che i brani di qualcosa che abbia in sé il doom debbano essere necessariamente più lunghi della media di ciò che propone il metal estremo. Il che porta inevitabilmente ad allungare il brodo, nel quale scompare un songwriting efficace a modellare uno stile più che buono ma incapace di dare vita a canzoni che non paiano dei meri segmenti messi in fila per giungere a destinazione, e cioè alla suite finale, ‘All Those Lies That Dwells…’, a onor del vero piuttosto noiosa.
Pertanto “God Has No Name” pare essere, come sempre più spesso accade in linea generale, un buon viatico per un sound che cerca l’originalità, trovandola in parte, ma incapace di mettere su carta dei brani che possano incidere qualcosa di duraturo, nella memoria di cui ascolta.
Daniele “dani66” D’Adamo