Recensione: Godform
E così, anche per i The Last Of Lucy arriva l’esame del terzo full-length, in questo caso intitolato “Godform”. Questa classica osservazione deriva dalla circostanza che, in linea generale, è con tale lavoro che una band mostra inequivocabilmente il suo volto, il suo talento – se ne ha – e la sua capacità di combattere professionalmente alla pari con i colleghi che costellano il mercato discografico internazionale. La prima pietra miliare, insomma, o milestone, detta all’inglese, da raggiungere nel caso si volesse intraprendere seriamente una carriera nel campo della musica.
“Godform” giunge a due anni di distanza da “Moksha”, e di esso ne è il naturale successore, giacché i Nostri avevano dimostrato di saperci fare anche in allora. Tuttavia, come si sa, non c’è limite ai miglioramenti, se a monte c’è una ferrea volontà di farlo. Ed è così per i The Last Of Lucy, ormai fautori di un sound preciso, senza alcun difetto, perfettamente bilanciato in ogni sua componente. Adulto nelle sue forme, evoluto a tutto tondo, in grado di sopravvivere senza fatica alcuna nel calderone ove ribollono coloro i quali si dilettano di death metal o, meglio, di progressive death metal (da non confondere con il technical death metal, simile ma culturalmente meno profondo).
Fusione di death e di progressive metal, detto stile accumuna momenti di furia devastatrice e istanti in cui la musica diventa maggiormente melodica, anche se derivante da elementi jazzistici (jazz cosiddetto caldo). Occorre evidenziare che ciò che emerge con maggiore continuità è tuttavia una furibonda dose di aggressività, eseguita irreprensibilmente (‘Wormhole’), anche se immersa in una costante matrice atmosferica generata dalle tastiere (‘Empyreal Banisher’) o da inserimenti ambient (‘Sentinel Codex’).
Sembra impossibile, ma la clamorosa quantità riff e di soli che si contano nell’LP è dovuta al lavoro di una sola chitarra: quella di Gad Gidon. Axe-man fenomenale che, assieme alle slappate del bassista Derek Santistevan, forma l’ossatura di una struttura dalle mille membrane iperstatiche. Il tutto ricamati da fini ceselli dorati che luccicano nel buio del terrore generato dal mood-death. Basti ascoltare, per esempio ‘Twin Flame’ per trovare un tesoro: velocità impossibili che sfondano la barriera dei blast-beats grazie alla precisione cronometrica del batterista Josef Hossain-Kay, riff devastanti, ritornello morbido e dolce, dalla voce pulita sottolineata da un solo di sax, stop’n’go dalla pesantezza insostenibile. Forse uno dei brani in assoluto più rappresentativi dell’ossimoro che delinea questo sottogenere sia del death, sia del progressive.
Un ossimoro forse spostato verso la brutalità più che in direzione della gentilezza, ma comunque esprimente, sempre, concetti di segno opposto. E, in tal senso, è l’ora di tirare in ballo Josh De La Sol, autore di sanguinolente harsh vocals da strappare la carne dalla pelle (‘Sanguinary Solace’) unitamente a possenti growling dai toni perennemente stentorei (‘Anima Flux’) che scoppiano le tempie. Un dualismo che aumenta a dismisura la parte Mr. Hyde della formazione statunitense.
Le cascate di note acute di Gidon si rovesciano praticamente in ogni brano del disco (‘Darkest Night of the Soul’), mischiandosi alla sezione ritmica per un risultato arabescato praticamente senza alcuna soluzione di continuità e, allo stesso modo, devastante. Il duello fra calmo e scatenato diventa così il leit motiv del platter, perennemente straziato da improvvisi cambi di tempo, inframmezzati a volte da intarsi atmosferici di ampio respiro (‘Angelic Gateway’). Non facendosi neppure mancare qualche coro dissonante (‘Godform’).
I brani, seppure ben diversi gli uni dagli altri, sembrano però non decollare, a parte la suddetta ‘Twin Flame’; nel senso che nel marasma (in senso buono) di “Godform”, i The Last Of Lucy non riescono a centrare molte melodie vincenti, di quelle che restano per sempre nella memoria, cioè. Tutto è buono, tutto è elaborato bene, ma manca un po’ di quel famigerato quid in più per poter sollevare l’intera opera da un valore medio che assilla molti act, incapaci di azzeccare il colpo vincente.
Il verdetto-milestone? Rimandati al quarto tentativo per comprendere, senza possibilità di errore, se la complessa capacità compositiva, loro indiscutibile bagalio culturale, possa avere, anche, ramificazioni di puro talento.
Daniele “dani66” D’Adamo