Recensione: Going Nowhere
A tre anni di distanza dalla release della prima demo “A Tower of Lies” (2010), la band lombarda Other View giunge alfine al fatidico passo del primo full-lenth autoprodotto: “Going Nowhere”. Allo stato attuale, la formazione è composta dai membri originali Lon HaWk (voce) e Stefano Candi (chitarra solista), assieme ai subentrati Francesco Tuscano (chitarra ritmica), Antonio La Selva (basso), Matteo “Vidar” Cidda (piano e tastiere) e Giacomo Bizzarrini (batteria). Il primo ascolto sorprende senza dubbio per la grande energia e la voglia di suonare e divertirsi sprigionata dalla band milanese; un sound molto pulito di difficile nomenclatura alla luce delle molte influenze in esso contenute che ben si amalgamano in un debut album decisamente sopra le righe.
Pioggia battente. Una campana in lontananza. Qualcuno ci inviata a muoverci. Rumore di passi. Di nuovo la campana. Un tuono. “Silenzio”. Pochi secondi di immersione nella giusta atmosfera emotiva, ed “Exile” ci trasporta subito nel vivo dell’ascolto con un riff molto compatto, una struttura lineare e quel genere di ritornello che ti entra subito in testa – con un “Going Nowhere” tra un “Exile” e l’altro, in chiusura a ribadire il titolo dell’album.
Segue “Doppleganger”, più veloce ed incalzante dal drumming al riffing, sul tema della dualità e di questa fantomatica creatura-copia. “Rebirth” porta la band verso differenti sonorità, più progressive già dall’intro; il pezzo si dipana tra riff, tastiera onnipresente ed un’interessante utilizzo del pianoforte; nel frattempo dietro le pelli il batterista sembra divertirsi un mondo. C’è spazio anche per un doppio assolo di tastiera e chitarra.
“Balder’s Dream” è un po’ il singolo della band, pubblicato sul canale youtube del gruppo e molto apprezzato dal popolo del web. Una ballad emozionante che ti aspetti da band con la tripla A, ben interpretata e con un buon motivo di pianoforte. Mi ha ricordato un po’ le stupende ballad dei nostrani Vision Divine, con tanto di chitarra elettrica che entra con gli armonici a spezzare la tranquillità onirica. Un po’ strano ed inaspettato il cambio di tempo in chiusura per giustificare l’assolo – che, a questo punto, poteva anche essere più lungo e tirato.
Nel mezzo del cammin del nostro ascolto accelerano di nuovo i tempi con il brano che diede il titolo alla demo precedente: “In a Tower of Lies”. Uno dei picchi della band, l’assolo neoclassico (tower = power) spacca la mascella, anche qui il ritornello è trascinante e la chiusura non banale. Segue “Lost in Heaven and Hell”, ancora su tempi veloci, atmosfere epiche, in cui sin dalla base ritmica della batteria in un crescendo carico di doppia cassa e vigore la band tiene in pugno l’ascoltatore in un ritmo serrato. Anche qui gli assoli incrociati di chitarra e tastiera rimandano ad una lunga tradizione prog-power italico. Di nuovo tanto lavoro di tastiere ad aprire “Every Friday” con un ritornello melodico pulito di quelli che ti ricordi anche ad ascolto concluso, sorretto da una curiosa trapanata di doppia cassa.
Credevamo d’aver già ascoltato tutto l’arsenale che gli Other View possono sfoderare, quando arriva in sordina questa “Reason of Life”, dalle sonorità più aggressive, ritmiche velocissime ed un Lon HaWk duro e versatile, un po’ Hetfield, che in chiusura “ringhia” all’ascoltatore, quasi a sconfessare una performance finora molto pulita. Conclude degnamente l’ascolto “Spawn”, altra piccola perla power metal dalle tastiere ai solos, quasi ad invogliare l’ascoltatore ad un secondo giro.
Nel caso deglo Other View il fenomeno di pezzi molto vari e dalle molteplici influenze non può che essere positivo, in quanto prova di grande libertà compositiva e stilistica per ogni membro della band, seppure un po’ viziata dal fatto che tale eterogenesi deriva dalla stesura dei pezzi in vari momenti storici ed e figlia di diversi cambi di lineup, attraverso i dieci anni di vita del progetto: un caleidoscopico “best of” di quanto scritto ad oggi dagli Other View.
La proposta spazia dall’heavy metal tradizionale (mi sono venuti spesso in mente i Maiden di metà anni ’80 di Seventh Son e Somewhere in Time) al power stile Stratovarius, dal prog più barocco agli accenni di metal neoclassico in alcuni solos, fino ad incursioni ritmiche e riff aggressivi tipiche del thrash; il tutto coadiuvato dall’ottima interpretazione vocale di Lon HaWk, apprezzabile sia nel pulito più melodico ed intimista che nelle parti più feroci e “gridate”.
Nove tracks carismatiche dalla struttura mai banale con ritornelli di facile identificazione che si lasciano ascoltare – e riascoltare – senza filler malevoli, cosa rara, in questi tempi carichi di scadenze, tanta fretta e pezzi arrangiati con la vanga e la zappa solo per uscire con “qualcosa”, giusto per far parlare di sé su webzine e social network.
Anche la produzione è inaspettatamente di buona fattura, in particolare considerato il fatto che l’album è autoprodotto. In questo senso forse i dieci anni di lavori e di gavetta sono stati importanti sia per il labor limae sul sound, così pulito, compatto e cristallino che per la crescita a livello tecnico-strumentale del gruppo.
Alla luce di quanto appena affermato, sembra che la prospettiva centrale utilizzata metaforicamente per la strada verso l’ignoto mostrata nell’artwork di quest’album porti un po’ “everywhere”, piuttosto che “nowehere”. Un “dappertutto” positivo, già nel nomen omen della band, indirizzata per sua natura verso “altri punti di vista”, che rifugge etichettature e categorizzazioni in genere, che ci ricorda come negli anni ’80 non ci fossero decine di sottogeneri tra i quali barcamenarsi, bensì solo solo due: metal ben suonato e metal suonato male – quest’album entra indubbiamente a pieni titoli nell’Olimpo della prima categoria. Complimenti allora alla band milanese, non possiamo che augurare loro che quella stessa strada raffigurata nella cover sia in verità una pista per il decollo verso nuovi orizzonti.
Luca “Montsteen” Montini
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