Recensione: Gold & Grey
Per chi non lo avesse ancora capito, gli statunitensi Baroness hanno una vera e propria ossessione per i colori. Infatti, i precedenti quattro album pubblicati dalla band riportano tutti almeno una tra le diverse cromie disponibili nella paletta di ogni pittore che si rispetti. L’altro vizio del quartetto capitanato da John Baizley è la capacità di continuare a sfornare album sorprendenti, in costante evoluzione sia in termini di sound che di umori, o mood se vogliamo essere più cool. Il nuovo lavoro mantiene non soltanto alte le aspettative e arriva a 4 anni di distanza dal disco precedente, ma con 17 tracce e un’ora abbondante di registrazione promette un viaggio in quel ruvido sludge che sarà il vero e proprio baluardo di quanto ci apprestiamo a sentire. Abbiamo anche l’arrivo in formazione di Gina Gleason, la quale ha contribuito a portare spessore sia in fase di composizione che sotto un aspetto puramente tecnico, ma parlando di Baroness tenete a mente che si parla di una tecnica messa interamente al servizio del gruppo, del risultato finale, di un sound che non è fatto solo da semplici note, ma piuttosto creato dall’unione delle stesse, abbracciando una sezione ritmica molto ispirata e che mette sotto i riflettori l’egregio lavoro al basso di Nick Jost, il quale soprattutto nelle prime tracce gira come una trottola e getta nel calderone di Gold & Grey una dose di groove che contribuisce a uno dei tanti strati musicali di un album a dir poco intellettuale.
Esatto, intellettuale. Come una bottiglia di vino d’annata che va bevuta a piccoli sorsi per essere prima di tutto capita, ma al tempo stesso potrebbe anche farvi ubriacare e stordire sotto quel viaggio onirico di Tourniquet, capace di ammaliare e trascinarti nel vortice prismatico di una band che ha ormai definitivamente consacrato un songwriting che pochi riusciranno anche solo che a idealizzare. Di tutt’altra caratura Throw Me An Anchor, un brano molto più diretto, frenetico e che contribuisce alla continua mutazione di un’identità sempre meno definibile con una manciata di parole o aggettivi. I’d Do Anything ci consente di riflettere ed emozionarci, un po’ come la successiva Emmett-Radiating Light, che però funge più da interludio, un aspetto sul quale i Baroness impegnano addirittura 6 tracce in totale, portando il numero dei brani effettivi da 17 a 11.
Con Cold Blooded Angels si vive ancora un momento di calma apparente, perché veniamo poi trascinati via da un climax impressionante, ancora una volta a dimostrazione che la band saprà sorprendervi nel momento preciso in cui non ve lo sareste aspettato. Spetta invece a Borderlines la capacità di riuscire a fondere al meglio la moltitudine stilistica impressa nell’intero disco, un album che nonostante superi i sessanta minuti, non vive mai un punto debole o che risulti noioso ad un ascoltatore che si affaccia al sound dei Baroness per la prima volta. Si conclude con Pale Sun, uno dei brani più personali, una piccola grande gemma psichedelica trasportata direttamente dagli anni d’oro del progressive rock.
Gold & Grey non è metal, non è progressive, non è sludge e tantomeno groove – no, non è niente di tutto ciò. E’ tutto fuorché catalogabile, ma se proprio sentite l’innato bisogno di etichettarlo, ficcatelo sullo scaffale degli ottimi dischi, in quel modo non sbaglierete. Sempre notevole la copertina e il design, opera dello stesso Baizley, quanto si patisce invece una produzione che penalizza il sound nell’insieme se vi approcciate a G&G come fareste verso un disco qualsiasi. In realtà la scelta di un mixaggio di questo tipo è stata voluta dalla band stessa e a dirla tutta, per come suonano e per ciò che vogliono trasmettere le canzoni, la ruvidità in uscita dalle nostre casse/cuffie non stona a tal punto da risultare un vero e proprio handicap. Poche ciance, ascoltatelo alla nausea, ne resterete a dir poco ammaliati.
Brani chiave: Tourniquet / Throw Me An Anchor / Cold Blooded Angels