Recensione: Gold Hunters
I lussemburghesi Lost in Pain proseguono la loro carriera, iniziata nel 2008, sfornando ‘Gold Hunters’, terzo album disponibile dal 7 aprile 2018 ed autoprodotto.
Un lavoro più che discreto, devo dire: un buon Heavy Metal moderno, con vampate Thrash anni ’90 non troppo feroci ma comunque aggressive, incentrato sul passaggio da ritmiche serrate ad altre più aperte e melodiche e su una voce espressiva e chiara.
Si percepisce una tristezza ed una rassegnazione di fondo, data dalle tonalità grevi usate, ma anche la voglia di uscire dall’oscurità, con lampi di luce che squarciano il nero. E’ anche evidente, senza però essere opprimente, una certa influenza verso il lavoro fatto dai Metallica post ‘… And Justice For All’.
Fin qui niente di nuovo, i Lost In Pain non brillano per originalità ma neanche sono dei cloni. La loro personalità non scaturisce in pieno ma il tentativo di emergere è palese, con un songwriting variabile che spazia un po’ per tutto l’arco che questo genere ibrido riesce ad offrire.
Come si è detto sopra, il punto cardine della band è l’uso della ritmica, con l’irrefrenabile Luca Daresta che, pari ad un guerriero in battaglia, percuote la sua batteria sino allo sfinimento, dando ai pezzi la giusta dinamica. Gli strumenti a corda di Nathalie Haas e delle due asce Dario Raguso e Hugo Nogueira Centeno lo seguono senza timore, creando muri sonori di forte impatto per poi demolirli, dando così spazio a sezioni melodiche avvincenti, evitando di cadere nella ridondanza del riff ripetuto all’infinito.
Lo stesso Hugo Nogueira Centeno si occupa del cantato, con una voce più che discreta, molto adatta al genere e di scuola James Hetfield, riesce a coinvolgere e a creare elementi di spicco senza strafare.
La parte solista è valida e presente, anche se, tendenzialmente, viene messa un po’ in secondo piano. Crea, comunque, la sua giusta parte di emozioni e non è solo un riempitivo od una necessità per creare un momento di pausa.
Si spazia, dunque, da brani come l’iniziale ‘Gold Hunters’, dall’attacco buio che anticipa un riff potente e cadenzato al quale seguono strofe angoscianti, trasformate in determinazione e carica positiva nel refrain, ad altre, come la seguente ‘Mining for Salvation’, più aperta ed orecchiabile, senza perdere di durezza.
‘Revolt’ esprime rabbia per mezzo di un tempo medio marziale e senza sosta, interrotto a metà da una breve linea di arpeggi dal tenore rassegnato.
Passando per la potente ‘Rebellious Protesters’, pestatissima, tagliente, a tratti veloce, a tratti cupa e pesante, si arriva a ‘Burnout’, traccia complicata ricca di sfumature, troppe direi … alla fine è un vortice in cui ci si perde. Si pone comunque evidenza sull’assolo, dai toni quasi psichedelici, altro elemento indicatore della voglia di distinguersi del combo.
‘A Word’ è un altro brano potente, che punta sull’orecchiabilità e sull’immediatezza, che porta ai due ultimi brani dell’album, vicini in scaletta ma musicalmente uno l’opposto dell’altro. ‘God of Destruction’ è una semiballad, melodica ma dura e pesante nei toni (qui di nuovo l’insegnamento dei Metallica sull’effetto che hanno brani del genere sul pubblico viene fuori), mentre la conclusiva ‘The Great Illusion’ è un bel Thrash veloce e potente che mette la parola fine nel modo giusto.
‘Gold Hunters’ non sarà il disco dell’anno e non brillerà per originalità, ma non è detto che una band, per essere ascoltata, debba sempre differenziarsi dalle altre con qualcosa di nuovo, soprattutto in un periodo storico dove è stato già detto praticamente tutto ed emergere non è semplice. I Lost in Pain lanciano poi sul tavolo una carta rischiosa da giocare: quella di allacciare il proprio sound ad un tipo di Thrash, quello degli anni ’90, che per molti, all’epoca, non si è dimostrata proprio una mossa vincente. Devo dire però che loro riescono a rendere il tutto interessante, ad eccezione di qualche sbavatura o qualche eccesso, che però ci sta. Diamo loro fiducia ed attendiamo cosa ci riserveranno per il futuro. Per ora il giudizio è più che positivo.