Recensione: Golem
Affé mia, quanta mistica ebraica vedo qui attorno! Perché nel trovarsi innanzi ad un monicker come quello dei nostrani Le porte non aperte, il pensiero fila dritto dritto al Talmud, alle nove sephirot che aprono altrettante porte conducenti alla città della luce e della conoscenza. Se a questo aggiungiamo che il loro debut album si chiama Golem, vale a dire l’omuncolo d’argilla immota in cui dio insufflò lo schem, l’anima da cui sarebbe sorto Adamo, il gioco é fatto. Il golem poi ha anche tutta una tradizione medievale, una sorta di omuncolo che solo chi aveva aperto le nove porte poteva creare, scrivendo la parola ??? (verità) su una statuetta di argilla.
Ma forse ci stiamo dilungando e stiamo sbagliando strada, perché la colorata copertina dei nostri, siccome la tracklist, fanno pensare piuttosto ad un concept album ambientato in una moderna Babilonia, un concept album cabalistico secondo la miglior tradizione prog italica. Sono le stesse Porte a dichiarare i loro riferimenti alla Premiata, al Banco e ad altri grandi gruppi di casa nostra.
Pure, all’ascolto il sound dei nostri va molto, mooolto, forse troppo vicino a quello dei Black widow, sul quale si innesta l’atipica voce di Sandro Parrinella. Atipica per chi è abituato a Yes e Rush, molto meno atipica per chi conosce la scena new wave italiana degli anni ottanta, giacché il nostro per toni e per impostazioni si avvicina molto al Pelù della Trilogia (si badi bene, non è una critica) o al Sassolini di Siberia (questo è un complimento bello e buono). Il risultato appare piuttosto affascinante sebbene assai lacunoso, e va detto che il Golem parte come peggio non potrebbe, con Il re del niente e La città delle terrazze. Due brani che, a dispetto del minutaggio contenuto, risultano eccessivamente carichi sotto l’aspetto teatrale. Da un lato il buon cantato di Parrinello indulge troppo spesso in stonature forzate. Dall’altro lato, per quanto siamo sempre disposti a sostenere chi ha il coraggio di esprimersi nella lingua di Dante, le strofe si impelagano in un intrico di rime troppo ravvicinate e per giunta grammaticali (convinzione – decisione – punizione nel giro di otto secondi è veramente fuor dalla grazia del signore, peggio di questo rimango solo le rime in -are).
La musica soffre di problemi simili, con troppi cambi e troppo bruschi, al quale si aggiunge un’indole derivativa sin troppo manifesta, quasi ci trovassimo innanzi ad una cover band piuttosto che a dei brani inediti. Sicché l’effetto immediato prodotto dalle Porte è quello di condurvi in soffitta a ripescare i vinili di IV e Sacrifice dei già citati Black Widow – qualcuno tra i più sagaci magari ripescherà pure le musicassette dei Diaframma e poi si getterà alla ricerca di un mangianastri.
Ma per quanto partano male, i nostri riescono a raddrizzare parzialmente i il tiro, mettendo pian piano a freno la voglia di stupire. Nascono così pezzi dignitosi come Nemesi (a dispetto dei nove minuti). Quando poi sul finire il gruppo sfodera la suittona Animale del deserto e soprattutto il deliquio totale della ballad Giardini di sabbia nasce nell’ascoltatore un certo senso di irritazione. Perché l’indole derivativa resta, il cantato e la musica dissonanti pure, e però tutto ciò che fino ad ora era stato un punto a sfavore delle Porte diviene magicamente un piacevolissimo contorno all’interno di due brani che filano alla grande (ma fare un disco tutto così era troppo difficile?)
Da ciò emerge l’idea che le Porte non aperte abbiano subito la medesima sorte del Rabbino Löw nella Praga di Rodolfo II, e parimenti il loro Golem abbia dato imprevedibilmente di matto. Alla luce degli ascolti dunque, non possiamo bocciare Le porte su tutta la linea, le rimandiamo e le invitiamo ad aprire almeno la porta di Geburah. Vale a dire che invitiamo la band a contenere, in futuro, il proprio furore creativo.
Tiziano “Vlkodlak” Marasco