Recensione: Goliath

Di Daniele D'Adamo - 11 Agosto 2023 - 0:00
Goliath
Band: Kataklysm
Genere: Death 
Anno: 2023
Nazione:
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78

In un momento storico in cui, indubbiamente, l’odio e le divisioni fra le persone e i popoli stanno dominando il presente, ramificandosi in tutto il Mondo, ecco che diventa attuale più che mai la biblica storia di Davide contro Golia. Quest’ultimo rappresenta l’oppressione e la repressione, mentre Davide la libertà. Libertà che coincide con uno degli elemento fondanti la cultura metal. Oltre alla lotta contro i totalitarismi, compresi quelli religiosi, il metal si oppone con decisione a chi limita la libertà, appunto, reagendo eroicamente contro l’uno, il forte, che tenta di schiacciare e sopraffare l’altro, il debole.

E chi sono i nostri eroi? Semplice: i Kataklysm che, con il concept-album “Goliath”, raggiungono la ragguardevole cifra di sedici full-length in carriera.

Già dall’opener-track, ‘Dark Wings of Deception’, s’intuisce subito che il cammino intrapreso con “Unconquered” (2020) è quello che, in questo momento, Maurizio Iacono e compagni intendono percorrere con la massima unità d’intenti. Poca melodia, cioè, e tanta, tanta aggressività.

Aggressività che si manifesta come una terrificante mazzata in piena faccia. Abbellita, sì, qua e là, da qualche arpeggio orecchiabile, ma comunque sempre orientata verso un sound assolutamente devastante. Lo stesso Iacono ha ormai dimenticato il growling (o quasi), per prediligere delle linee vocali arse, roche, isteriche, che quasi parrebbero strizzare l’occhiolino allo screaming. Un tono che dire stentoreo è poco, che ammanta tutto il lavoro. La sua ferocia è davvero inusitata ed erige il cantante italo-canadese a vero condottiero di una truppa votata alla totale annichilazione. Tanto carisma, insomma.

Non che gli altri membri del combo di Montreal dormano, però. Jean-Francois Dagenais si sobbarca un lavoro extra per gestire una quantità immensa di riff, il cui segno caratteristico è la capacità di passare con noncuranza da frequenze ribassate ad accordi acuti (‘Bringer of Vengeance’), comprimendo la potenza con l’usuale tecnica del palm-muting. Riff quadrati, piuttosto lineari per non intralciare la velocità di crociera del gruppo. Molto bravi in ciò, ma si sa, Stephane Barbe (basso) e James Payne (batteria). Il duo, difatti, si esprime con una miriadi tempi, passando dai mid-tempo a furibondi blast-beats. Il tutto, eseguito alla perfezione.

È proprio la fase esecutiva una delle cartine al tornasole per verificare la bontà di un progetto. In questo, i Kataklysm si mostrano una delle formazioni più in forma non solo in ambito death, ma nel metal tutto. La produzione è senza pecche, e ciò che fuoriesce dagli altoparlanti, anche ad medi volumi, è una spaventosa onda d’urto che abbatterebbe gli alberi come successo in Tunguska nel 1908 (‘Die As a King’, ‘Combustion’). Proprio in ‘Combustion’ si può toccare con mano la (minimale) parte melodica mentre affoga in un sound da bomba termonucleare. E così è anche per ‘From the Land of the Living to the Land of the Dead’ ove, però, in mezzo allo sfascio assoluto emerge un ritornello appena appena catchy, esagerando con il termine.

Il che identifica un songwriting rivolto verso il calor bianco della lava fusa invece che a chorus da mandare a memoria. Un songwriting adulto, irreprensibilmente formato, senza difetti evidenti, in grado di garantire ai Nostri la loro unicità in mezzo alle migliaia di band che si cimentano con il death metal. Death metal punto, poiché, in questo caso, il melodic esiste solo e soltanto in ‘Heroes to Villains’, unico brano davvero capace di sfondare. Almeno, a parere di chi scrive. Ecco che allora, per davvero, si è di fronte a una traccia che possiede tutti i crismi per schiantarsi sulla parte interna della scatola cranica per via di una progressione melodica irresistibile e un mood altrettanto accattivante. Forse i veri Kataklism. Forse.

In ogni caso le canzoni sono molto differenziate le une dalle altre, il che conferma il loro talento compositivo. Un talento che, presumibilmente, riesce a dare il massimo facendo un passo indietro per aumentare il carico monodico, al momento molto basso. Il che porta, fra l’altro, ad aumentare il rischio di noia, sebbene il platter scorra fluido e rovente, senza che appaiano filler o buchi di potenza. Anzi, si può apprezzare la voglia di modernità della title-track, che strizza l’occhio, addirittura, all’andamento rutilante del modern metal à la Slipknot (sic!).

La consistenza di “Goliath” è tale da essere immune a pesanti critiche. I singoli episodi spaccano la schiena. Il gruppo è ben allenato e mostra di avere ancora tante cose da dire. Si soffre un po’ per il tono a volte cupo e riottoso (‘The Sacrifice for Truth’) ma nel complesso l’LP è ottimamente costruito. Manca solo quell’indefinibile quid in più da renderlo leggendario.

Per il resto c’è solo un aggettivo: devastanti!

Daniele “dani66” D’Adamo

 

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