Recensione: Gospel of Bones
Settimo full-length per i Funeral. “Gospel of Bones“. Un nome e un titolo che dicono tanto sullo stile della band norvegese, improntato su sentimenti di mestizia quali per esempio tristezza e malinconia. E su questo stile, nel 1991 il batterista e mastermind Anders Eek ha fondato la sua creatura che, fra mille vicissitudini, è riuscita a sopravvivere sino nostri giorni.
No. Non sopravvivere bensì vivere. Perché “Gospel of Bones” è un progetto ambizioso, moderno e, soprattutto, indicativo di un gran lavoro in fase compositiva e quindi esecutiva. Peraltro, spiccano i nomi di Ingvild “Sareeta” Johannessen, violinista (e voce), sì da elaborare orchestrazioni vere e non generate da un sintetizzatore; e quello di Eirik P. Krokfjord, baritono specializzato nelle opere di Wagner, noto per la sua appartenenza al Norwegian Opera Choir.
Si diceva dello stile. Le note biografiche affermano che si tratti di doom ma l’errore è marchiano, poiché se c’è una band che pratica il gothic metal è proprio questa. E lo pratica davvero bene, con una professionalità da brividi sulla pelle. I musicisti e i cantanti sono, infatti, ai vertici del loro mestiere, donando in tal modo al disco la perfezione sia tecnica, sia artistica.
Queste peculiarità si rinvengono ovunque, in “Gospel of Bones“. La durata del medesimo, ben oltre i sessanta minuti, consente di esplorare in largo e in lungo la profondità delle emozioni umane. Le quali, quasi fossero un libro, vengono sfogliate per leggerne il contenuto. Così, si scopre che i capitoli dedicati alla gioia e alla felicità sono effimeri sbuffi che durano poco se non niente.
Mentre, al contrario, ciò che regge l’Uomo, quello che lo ha fatto costantemente evolvere si può enumerare facilmente: sofferenza, solitudine, nostalgia, amarezza, ansia, angoscia e a volte terrore sono stati, almeno per Anders Eek e compagni, le componenti invisibili ma fondamentali che hanno accompagnato e accompagnano tutt’ora la vita di tutti degli uomini di tutti i giorni.
Benché il gothic sia teoricamente incline alla melodia, nell’LP ce n’è poca. Almeno, di quella facilmente ascoltabile. Tutto sommato si è davanti a un lavoro dal sound poderoso, massiccio, granitico grazie al roccioso riffing delle chitarre. L’incedere è possente, ritmicamente teso a formare una struttura di base rigida, dalle membrature enormi, sulla quale viene per così dire posata la musica più leggera. Alla fine di metal si tratta. Di quello vero.
Niente ritornelli orecchiabili, niente passaggi più dolci, da opporre al già citato avanzamento che non lascia prigionieri dettato dalle bacchette di Anders Eek e dal basso di Rune Gandrud. L’insieme a suo modo è armonico, come si poteva prevedere data la qualità eccezionale degli interpreti. Lungo il corso del disco non ci sono perdite di tempo o inutili orpelli: si procede senza mai fermarsi, quasi si fosse in una marcia militare.
Per fornire qualche elemento in più di descrizione, trattasi di gothic un po’ simile a quello per esempio di Orpanage e Paradise Lost, anche se meno catchy. Si torna quindi al metal, che contamina irresistibilmente le sezioni d’Opera per formare un insieme ultracompatto ma leggibile da chi abbia voglia di cimentarsi nell’ascolto.
I brani sono lunghi, rispetto alla media del genere, e anche nella loro forma rispecchiano la musica classica invece che quella rock, anche se poi il metal fa la parte del leone. Non ci sono hit, come del resto era prevedibile ma malgrado tutto il platter scivola via con relativa scioltezza, evitando di essere eccessivamente pesante da digerire, risultando anche parecchio longevo.
“Gospel of Bones” ha infine un pregio citato per ultimo ma non ultimo: l’originalità. Sondando il mercato discografico in lungo e in largo non è che si trovi facilmente qualcosa di simile. Anzi. La frontiera del metal pare non avere limiti, e i Funeral lo dimostrano abbondantemente con il loro mastodontico gothic classico.
Daniele “dani66” D’Adamo