Recensione: Gotus
L’ennesimo supergruppo made in Frontiers ci porta questa volta alla scoperta dei Gotus, band “passatempo” ideata nel 2019 dallo storico chitarrista svizzero Mandy Meyer assieme al batterista Pat Aeby, anch’egli navigatore di lungo corso.
Gente d’esperienza, dalla carriera infarcita da mille collaborazioni (Gotthard e Krokus su tutti), che assieme ad un paio di nomi ricorrenti nella serialità di progetti analoghi come Alessandro Del Vecchio e Ronnie Romero, ha avuto l’occasione di esprimersi lungo un primo full length d’esordio.
Completano la formazione, il meno conosciuto ma altrettanto abile tastierista Alain Guy e Tony Castell al basso, altro reduce da lunghe esperienze ancora con i Krokus ed i Crystal Ball.
A dispetto di un nome e di una copertina dalle suggestioni gotiche (per l’appunto), il genere che i nostri trattano con indubitabile destrezza è – non poteva essere altrimenti – un hard rock torrido e muscolare che ha come punti di approdo alcuni nomi storici del pantheon ad esso riservato.
Si parte dai “grandi antichi” Deep Purple, Rainbow e Whitesnake, per svoltare poi verso altri classici di estrazione mittel-europea quali Fair Warning, Shakra e, naturalmente, Gotthard e Krokus.
Del resto, è facile intuire come il moniker (Gotus), altro non sia che la sincrasi derivante proprio da Gotthard e Krokus…
Numi tutelari insomma, con un peso specifico decisamente notevole per il genere, più che sufficienti ad inquadrare compiutamente le coordinate entro cui si espande l’esperienza di Mandy Meyer e dei suoi sodali.
Come spesso accade in frangenti di questa fattispecie, il confine tra piacevolezza d’ascolto e carenza di personalità è alquanto labile. Non esiste, ovviamente, nulla che possa far riferimento a suoni e soluzioni nuove al punto tale da sorprendere. Il canovaccio è sempre il medesimo e va a ripetersi all’infinito.
C’è, come invece sempre accade, una grandissima padronanza dei mezzi da parte degli artisti coinvolti, uno per l’altro, semplicemente dei fuoriclasse per doti tecniche e capacità interpretative.
Come se ne esce?
Dipende puramente dal proprio punto di vista. Qualora l’alone di deja-vu che inevitabilmente ammanta progetti come questo, non sia motivo di particolare fastidio, si potrà godere di un disco davvero ben fatto in ogni sua componente. Nostalgico senza eccessi, con qualche concessione alla ruffianeria (le cover di “When The Rain Comes” dei Katmandu e “Reason to Live” dei Gotthard vanno dritte nella categoria “ti piace vincere facile”) ed una resa strumentale / interpretativa di prima grandezza.
Se, al contrario, il riascoltare per l’ennesima volta la ricetta che ha reso epici “Burn“, “Homerun“, “1987” e “Rising”, mostra i segni del tempo, il rischio sarà quello di scorrere velocemente, perdersi senza prestare troppa attenzione e, dopo un paio di sbadigli, archiviare l’incidente alla voce “album che non mi fanno sollevare nemmeno un sopracciglio”.
Tant’è, delle due, una.
A noi, pur con qualche riserva, dobbiamo ammetterlo, il primo disco dei Gotus non è dispiaciuto affatto.
Al netto di uno stile che dice tutto sin dalle prime note, la bravura dei singoli è parsa sopravanzare per ampio distacco il fastidio tipico delle cose stra-sentite. Ed il songwriting, pur imbevuto di classicità, ha saputo mostrare qualche guizzo invero interessante. “Love will Find its Way”, “Weekend Warriors” e “The Dawn of Tomorrow” sono pezzi molto belli, in cui si apprezzano valori di alto lignaggio nei quali, per una volta, sembrano nemmeno mancare passione e vivo coinvolgimento. Qualcosa in pratica, che non dia l’impressione del compitino svolto come un lavoro e non per reale pulsione artistica.
Insomma: c’è sostanza e, caso raro ultimamente, il supergruppo pare funzionare al riparo dall’idea di mera costruzione artefatta. Quella stereotipata e ormai tediosa, dei tanti side project impilati a tavolino come un Lego.
Per metterla facile e farla breve: basta non esagerare con le aspettative e ascoltare senza andare alla ricerca di particolari capolavori. A quel punto, ancor di più se il genere è nelle proprie corde, Gotus ci sta tutto.
Una formula molto semplice che consentirà di apprezzare senza troppi sofismi un album d’esordio che in modo un po’ inatteso potrà rivelarsi piuttosto interessante.