Recensione: Grand Tour
Per un motivo o l’altro i Big big Train me li sono sempre fatti sfuggire. Pur essendo una colonna portante del progressive britannico non li ho praticamente mai ascoltati. Sarà distrazione, sarà uno di quei casi in cui ti dici di doverli ascoltare e poi non lo fai mai. Sarà pure la presenza di David Longdon, ed ex vocalist dei Tangent, band che tempo addietro ho adorato ma che nelle ultime uscite ha registrato un netto calo; sta di fatto che comunque fino ad oggi i Big big Train non li ho mai approfonditi.
E dunque la miglior occasione per porre rimedio non può essere altra che quella di recensire “Grand tour”, loro quindicesimo (!!!) album in 25 anni di carriera – un caso più unico che raro tra le band neoprog, per le quali spesso il termine di separazione tra le uscite è il lustro.
Ora, dire “quindicesimo album” di solito fa pensare a una band che il suo meglio lo ha già dato, magari si ripete, magari non ha molte idee e magari ha pure perso un bel po’ di verve.
Ecco, “Grand tour” non ha nulla a che vedere con tutto ciò. Quest’album ci offre un’ora di ottimo neoprog di marca vagamente canterburiana, leggera a dispetto del tecnicismo e piacevolmente scorrevole anche nei casi in cui il minutaggio arriva al quarto d’ora. Si parte subito alla grande con il groove di ‘Alive’, che ben inquadra il disco. Tastiere onnipresenti e atmosfere sospese, in questo caso impreziosite dai ritmi piuttosto serrati di Nick D’Virgilio che rendono il pezzo relativamente veloce e molto coinvolgente. La successiva ‘The Florentine’, tenuta in piedi da un semplicissimo riff di chitarra acustica, ci porta su toni più sognanti e propri della scuola di Canterbury.
Ma è con ‘Roman Stone’ che si ha il primo piccolo gioiello del disco. Si può riassumere i molti pregi di questa composizione in maniera molto semplice, uno degli assiomi del bel prog: è una suite e non te ne rendi conto. Prima di guardare il minutaggio (13 minuti e mezzo) ti sembra la classica canzone di neoprog dai ritmi delicati e molto orecchiabile, di una durata che forse tocca i sei minuti. Lo stesso vale per ‘Ariel’ e ‘Voyager’ (28 minuti in due). Il bello di queste tre suite, al di là delle ottime atmosfere e della grande orecchiabilità, sta nella struttura, che bene o male è quella delle canzoni classiche, ma è davvero progressiva. C’è un continuo divenire – in crescendo – dello stesso tema, su cui alle parti cantate fanno da contraltare frequenti interludi strumentali inseriti con rara maestria e che non sono mai pesanti. Ad oggi, semplicemente, non ci si imbatte tanto facilmente in un album con tre suite che non contengono – nessuna delle tre – neppure un secondo che non sappia di bollito.
E questo è il miglior biglietto da visita per una band di questo tipo. Un altro ottimo biglietto da visita è poi il fatto che “Grand tour” è il primo album dei nostri ad entrare nella top 40 britannica.
Vogliamo trovare qualcosa di non altissimo livello in questo disco? Probabilmente la copertina. Per il resto, un’autentica bomba che tutti gli appassionati del genere apprezzeranno. Per chi non è avvezzo al genere, in ogni caso, si tratta di un ottimo disco che può rialzare l’opinione sul neoprog, che è ben noto per essere un genere statico e duramente legato ai suoi canoni base. Non che tali canoni vengano rotti, ma il risultato è raffinatissimo e coinvolgente. Per quanto riguarda me, invece, ci sono altri 14 dischi da ripescare.