Recensione: Graveside Service
RodtGod è una one-man band tedesca dietro al cui moniker c’è il polistrumentista Chris Huszar. Il musicista di Stoccarda è impegnato anche nel progetto Galvornhathol, ma se in questo suona – sempre occupandosi di tutti gli strumenti – un Black Metal/Shoegaze, con RodtGod dà sfogo alla sua vena Death Metal.
Dopo aver realizzato in tempi recenti due album autoprodotti, “New Doom Rising” nel 2020 e “Know your Pain, Pick your Poison” nel 2022, Huszar torna con RodtGod il 3 marzo 2023, data di pubblicazione dell’EP “Graveside Service”. Non avendo mai ascoltato i due full-lenght sopra citati, nell’accostarmi a questo nuovo mini-album ho cercato informazioni sull’Encyclopedia Metallum (aka The Metal Archives) e sono rimasto abbastanza perplesso nel vedere come questa riconducesse RodtGod ai generi Sludge e Doom.
Ripeto: non so come suonassero i due LP precedenti, ma per quanto mi riguarda quello che si sente in “Graveside Service” è un Death Metal perlopiù lento, è vero, ma pur sempre Death Metal, con i suoi growl gutturali e cavernosi, le chitarre compatte e un drumming relativamente tecnico. Parafrasando le parole di Lee Dorrian dei Cathedral, sarebbe riduttivo ricondurre il genere Doom solamente al suonare in modo lento e pesante, senza considerarne mood ed atmosfere. A questo aggiungo che – contrariamente al senso comune – ci sono gruppi come High On Fire e Black Cobra che, pur rimanendo generalmente piuttosto veloci, sono senza alcun dubbio ascrivibili alla sfera Doom/Sludge.
Chiarita la natura generale di “Graveside Service”, passiamo a una disamina più specifica degli episodi che lo compongono. L’EP è aperto da “Filamentis”, la cui intro ne annuncia l’inclinazione tribale. Ma si tratta, purtoppo, di una tribalità del tutto scontata: non appena attacca il riff, infatti, l’impressione è quella di trovarsi dinnanzi a una versione di serie B di “Roots Bloody Roots” dei Sepultura. Con la successiva “Tomb” le cose vanno un pochino meglio: il suono si fa più preciso e tagliente con i riff – perlopiù lenti – che fanno il paio con un drumming tipicamente Death, che si esprime appieno nelle accelerazioni.
Similitudini con i lavori più lenti di Max Cavalera emergono anche ascoltando la title track, un downtempo calcato e pieno di groove, ben eseguito, ma scarso in quanto a carattere. La conclusiva “What Was Does Not Define…” è invece il pezzo più ispirato del lotto, grazie alla fusione organica tra la prevalente componente Death e le dilatazioni delle chitarre fangose tipicamente Sludge.
Chris Huszar si dimostra tecnicamente valido sia come musicista che dietro al mixer: “Graveside Servce” è infatti un prodotto ben eseguito e registrato. Le carenze, piuttosto evidenti, riguardano invece la fase compositiva: i brani sono eccessivamente derivativi e da essi emerge poco o nulla della personalità dell’autore. Le premesse tecniche per fare musica interessante ci sono. Una soluzione potrebbe essere allargare la formazione ad altri componenti: il confronto con altri musicisti potrebbe aiutare Chris Huszar a trovare nuove vie espressive per i suoi RodtGod.