Recensione: Gravity
Rovesciando un processo compositivo consolidato da ormai vent’anni di attività e ben nove album all’attivo, i Caliban hanno cercato prima la melodia con il vocalist Andreas Dörner, poi la potenza con il resto della band (immutata da “Ghost Empire”, 2014). Risultato, il decimo full-length in carriera, “Gravity”.
Cioè, il loro capolavoro.
Non ci vuole molto, a capirlo. Anzi, pochi secondi e si spalancano le porte del Paradiso. ‘Paralyzed’, una song impossibile. Impossibile perché trovare un’armonizzazione come quella che riveste d’oro massiccio i suoi bridge e refrain occorre passare al setaccio centinaia di migliaia di song. E, forse, si centra l’obiettivo. Definire ‘Paralyzed’ un’hit è riduttivo, poiché la sua melodia va al di là dello spazio e del tempo, per restare impressa per sempre. Per tutta una vita. Difficile davvero descrivere a parole il sogno che si materializza durante l’incredibile, impossibile binomio ponte / ritornello:
«I’m the ghost
you’re the night
I’m the shadow
you’re the light
I am paralyzed
oh I’m paralyzed».
In assoluto, uno delle più grandi odi mai scritte nell’ambito del metal estremo.
Che, per i Caliban, sempre estremo resta. Il loro metalcore, difatti, è duro, rabbioso, violento. Come i muscoli che lascia intravedere ‘Mein schwarzes Herz’, lirica ovviamente dotata di altrettanto, immenso chorus. È proprio in pezzi come quello appena citato che si può notare lo sforzo compiuto dai Nostri per dar vita a qualcosa di memorabile. Le tastiere e voci femminili di supporto esplodono nelle loro melodie ma, allo stesso tempo, si percepisce che sono solo un di più. Talmente è spettacolare la materia prima, vedasi ‘Who I Am’, altro episodio da Storia del metal. Metalcore che, al momento, a parere di chi scrive, rappresenta lo status del genere, anche durante il rutilante avanzamento della travolgente ‘Left for Dead’, avvolta da un mood tetro e cupo che ben si amalgama con lo stile feroce del quintetto teutonico.
E il ritmo fa male, quando assume il caratteristico avanzamento dello stop’n’go: ‘Crystal Skies’, doppia cassa, basso a tappeto e… melodia irresistibile. Come per lenire le laceranti ferite procurate da un eccesso di potenza sonora. Potenza che si sviluppa nel suo massimo con il riff vertiginoso di ‘Walk Alone’, stavolta sì, definibile clamorosa canzone di successo per scalcare i vertici delle classifiche metalliche e non.
Orchestrazioni e ancora voci femminili in ‘The Ocean’s Heart’, sempre controllata e comunque dominata dallo stentoreo ruggito di Dörner. Spettacolare, ancora una volta, la sezione deputata all’eleganza del cantato, stavolta di taglio heavy, classico. Seppure, sempre e comunque, metalcore. Ed è quindi il momento dell’anthem, di qualcosa da cantare tutti assime. Del lento. ‘brOKen’. Ricco di pulsioni melanconiche, di echi riportanti al presente momenti di gioioso passato, che non tornerà mai più. Nella piena tradizione metalcore, insomma.
Ancora un tuffo al cuore: è ‘For We Are Forever’, inno alla forza e alla maestosità del metal, alla fratellanza e all’unione dei fan. Cori epici svettano in alto, sulle cime innevate. Fantastico cantico! A entrare nelle vene ci pensa, poi, la velenosa ‘Inferno’. Dimostrativa, una volta di più, della pesantezza ritmica del metalcore e della sua contemporanea eleganza melodica.
I sogni, le visioni, le allucinazioni… ‘No Dream Without a Sacrifice’ è lì, per generarle, per nutrirle, per renderle incommensurabili nella loro bellezza formale e sostanziale. Ancora furia demolitrice, di seguito. Occorre sempre ricordare, difatti, che il metalcore è parente stretto del death metal. ‘Hurricane’, per volare in direzione dell’infinito sulle ali del vento con lo straordinario, ancora una volta (sic!), super-ritornello.
Molte volte si biasimano i vari ensemble per il fatto che a essi manchi il quid dell’epopea metallica. Ebbene, qui c’è. Tutto. A dosi massicce.
Forse “Gravity” non è solo il capolavoro dei Caliban. Forse, è qualcosa di più.
Daniele D’Adamo