Recensione: Gravity
Quinto studio album del supergruppo guidato da Mark Boals, dopo il precedente Battle of Leningrad, concept album che aveva riproposto la band su buoni livelli di salute. Il cantante dal falsetto inconfondibile, supportato dal maestro dei tasti d’avorio Vitalij Kuprij e, questa volta, dai nostri Stefano Scola al basso e Alfonso Mocerino (Temperance, Virtual Symmetry) alla batteria, propone a otto anni di distanza questo Gravity, disco dalla cover anodina ma sempre invitante vista la line-up chiamata in causa. I dieci pezzi in scaletta non hanno punti deboli, coniugano come in passato il lato barocco della band alle influenze AOR in modo equilibrato e vincente.
Le danze si aprono con il pezzo più lungo, i quasi otto minuti di “The Beginning”. Tutto prende avvio su ritmi lenti e solenni: prima synth di organo, poi i tasti d’avorio di Kuprij, con il loro sound cristallino e ficcante. Mark Boals successivamente non risparmia gli acuti, mentre le ritmiche si inseriscono taglienti su una base heavy. Come inizio che dire? Tanta potenza, forse troppa, Boals indulge nel falsetto e il risultato pecca di hybris sonora, ma poco male, il disco è ancora lungo.
“Storm Of The Pawns” presenta più elementi barocchi e alcune cadenze interessanti; sentire Kuprij al pianoforte resta impagabile. “Melanchonia” risulta più potente e rocciosa come song, vengono in mente gli Evergrey ma anche certi Helloween. Ottime le parti di doppia cassa, sebbene la produzione non le valorizza al massimo. La title-track è un altro pezzo maestoso e articolato. La sezione che occupa il quinto minuto è un cammeo raffinato in pianissimo che preluda al finale circolare con sfumature epiche.
Siamo a circa metà dell’album. Dopo il discreto mid-tempo “King of fools”, “Sky Blue” è la ballad avvolgente che aspettavamo: semplice, lineare, col giusto pathos e atmosfere rarefatte. Sicuramente uno dei momenti più ispirati del platter. Note di hammond aprono “21St Century Fate Unknown”, brano dai testi non troppo ottimisti, come del resto ci hanno abituati i Ring Of Fire.
Gli ultimi tre pezzi non aggiungono molto a quanto già sentito. Segnaliamo il momento pianistico di Kuprij all’avvio di “Another Night”, ballad questa volta con la presenza della chitarra elettrica; il virtuosismo barocco di “Run for your light” (secondo pezzo power-oriented con doppia cassa); la coda della conclusiva “Sideways” con il ritorno delle note d’organo di Kuprij.
Gravity, al netto di qualche ripetitività, è un disco ben bilanciato tra mid-tempo, pezzi in doppia cassa e ballate. Darà soddisfazione a tutti gli amanti della band, ma non aspettatevi un lavoro particolarmente innovativo.