Recensione: Green
Tra le carriere dei vari gruppi thrash meno facili da inquadrare a posteriori, cioè da inserire nell’adeguato contesto e valutare con mente serena e critico distacco, si deve giocoforza inserire quella dei Forbidden. Ancora più arduo il compito se andiamo ad analizzare nello specifico quello che è senza ombra di dubbio il loro album più controverso: “Green”.
Inquadramento che tuttavia diventa assolutamente necessario per il quarto lavoro sulla lunga distanza del gruppo californiano, onde evitare giudizi troppo affrettati e pressapochisti. Ecco perché non si può fare a meno di inserirlo innanzitutto all’interno di una discografia assolutamente eterogenea eppure legata dal classico fil rouge che unisce idealmente tutti i loro album, rendendoli l’uno l’ineluttabile conseguenza del precedente all’interno di un’evoluzione stilistica. Sarebbe sbagliato, infatti, isolare “Green” bollandolo come un episodio a sé stante o più banalmente come il loro album più brutto che niente ha a che vedere con quella che è l’essenza del gruppo. Insomma, un incidente di percorso. Sono evidenti le analogie con il precedente “Distortion”, prima fra tutte il progressivo allontanamento dal puro thrash dell’esordio, in piccola parte già avvenuto su “Twisted Into Form”, per esplorare soluzioni diverse senza comunque snaturare del tutto la propria identità. L’appesantimento degli arrangiamenti, la ricerca di melodie cupe e malsane, le dissonanze, le linee vocali rarefatte o filtrate e così via. Ragionamento che si può tranquillamente estendere a “Omega Wave”, perché nonostante sul loro ultimo disco i Forbidden abbiano fatto un ritorno a sonorità più vicine a quelle dei primi due capolavori inarrivabili, non hanno evidentemente rinnegato il percorso che li ha portati fino a quel momento, a dispetto dei tredici anni di distanza dall’album oggetto di questa disamina e ben diciassette da “Distortion”. Basta ascoltare brani come “Overthrow”, “Swine” o “Immortal Wounds” per averne conferma.
Altro errore è affermare che con “Green” i Forbidden abbiano copiato i gruppi che andavano forte in quegli anni per sfruttarne il successo. O perlomeno un ragionamento del genere sarebbe veritiero fino ad un certo punto e comunque riduttivo nei confronti delle loro capacità compositive, tecniche e la loro marcata personalità. Un’identità forte che non è mai venuta meno, neppure nei momenti di minor ispirazione. Si può estrarre un qualsiasi spezzone di “Green” ed avere la certezza di ascoltare i Forbidden e non Pantera, Sepultura, Korn o Machine Head. Non solo. Dato che il cosiddetto groove metal, prima, e il nu metal, poi, dovevano ancora essere definiti e codificati – colgo l’occasione per ricordare che i vari Linkin’ Park, Limp Bizkit, Slipknot, Lamb Of God e compagnia suonante stavano giusto emettendo i primi vagiti ed i Machine Head avevano pubblicato solo il debutto, che può essere quasi considerato un album atipico nella loro discografia – si può quasi arrischiarsi a sostenere che i Forbidden con “Distortion” e “Green” abbiano contribuito a dettare le linee guida del/i nuovo/i genere/i, arrivando giusto dopo i capostipiti. Un azzardo, certo, soprattutto perché i Nostri non sono mai riusciti a sfondare come i gruppi sopracitati influenzando le generazioni a venire, anzi, sono finiti per implodere sparendo dalle scene.
Diverso, invece, l’approccio dal punto di vista qualitativo. E non poteva essere altrimenti, dato che all’interno di una discografia davvero rilevante come la loro, “Green” è senza tanti giri di parole l’episodio più opaco. Non tanto per la “svolta modernista” in sé o per mancanza d’ispirazione, quanto per l’andamento altalenante delle composizioni e per aver ridotto all’essenziale i soli di due purosangue come Locicero e Calvert ed ancora più ai minimi termini le strutture dei brani. Dopo le spirali contorte di “Twisted Into Form” e le opprimenti e visionarie atmosfere di “Distortion”, infatti, la semplificazione è evidente e questo è il più grande difetto dell’album. Tuttavia, merita concedere almeno una seconda possibilità a “Green”, anche a distanza di tanti anni, dedicandogli un ascolto a mente più aperta di quanto non fecero i fan cosiddetti intransigenti all’epoca dell’uscita ed al suo interno troverete dei brani che ripagheranno il tempo speso. In particolare le note positive arrivano dal trittico iniziale, da ascoltare tutto d’un fiato. L’opener “What Is The Last Time?” è il brano che non ti aspetti (specie per un gruppo thrash), caratterizzata da un incedere lento e circolare delle chitarre senza la classica forma-canzone e da una linea vocale ipnotica di Russ Anderson. Si sale d’intensità con “Green”, direttamente attaccata all’opener, e ci troviamo già ad uno degli highlight dell’album. I ritmi si fanno più serrati ed il vocalist rossocrinito alterna sapientemente parti aggressive ad altre di nuovo rarefatte. A questo punto della carriera il Nostro è un maestro a modulare la propria voce, così come le due asce nel dipingere un solo vibrante. Il crescendo iniziale continua con “Phat”, anche questa praticamente attaccata alla traccia precedente. In questo caso a mettersi in bella mostra è Steve Jacobs, batterista completo già apprezzato sul precedente lavoro. Il piatto forte, però, arriva in chiusura con “Blank”, una spettacolare semi-ballad con un Anderson di nuovo in cattedra e “Focus”, forte di un ritornello energico e dannatamente catchy.
La sezione centrale dell’album, invece, risulta più difficile da digerire, anche se probabilmente sarebbe più opportuno dire “accettare” se si pensa a pietre miliari come “Chalice Of Blood” o “March Into Fire” e si associa il nome Forbidden solo a quel tipo di thrash. Basta prendere ad esempio la pachidermica “Turns To Rage”, con una strofa che strizza l’occhio ai Filter di “Hey Man Nice Shot”, molto in voga in quegli anni, e qualche concessione di troppo al modernismo più sfrenato, specie in chiusura, per capire il rifiuto dei fan della prima ora per “Green”. Certo, brani come “Over The Middle”, “Kanaworms” e “Noncent$” spingono decisamente sull’acceleratore, arrivando alle velocità massime che quel periodo infausto per il thrash concedeva, ma non era comunque sufficiente per risollevare le quotazioni dell’album ai loro occhi.
Insomma, “Green” è un album che ha fatto e continuerà a far discutere. Probabilmente rimetterlo nello stereo a distanza di tanti anni potrebbe far cambiare idea a qualcuno, oppure rendere ancora più forti le convinzioni di altri. Quello che appare evidente dopo tanto tempo è quanto il disco sia legato a doppio filo al periodo storico in cui è uscito, con tutto ciò che ne consegue. Che non significa necessariamente scopiazzare ciò che andava per la maggiore, nel caso specifico dei Forbidden, quanto cercare di rimanere al passo coi tempi, farlo con personalità e rimanendo coerenti con il proprio percorso artistico. Da qui la lunga ma necessaria premessa. Potranno sembrare sofismi, ma provate a pensare a quanto è netto lo stacco tra “Divine Intervention” e “Diabolus In Musica” (dischi sempre di quegli anni) degli Slayer e metteteli a confronto con “Distortion” e “Green” e tutto sarà più chiaro, credo. Fatto sta che le scarse vendite, il fatto di venire ripudiati da gran parte dei propri sostenitori e il poco supporto dell’etichetta, segnarono il destino del gruppo. Destino forse troppo spietato con i Forbidden all’epoca, considerato che “Green”, nonostante tutte le critiche, legittime o meno, contiene degli episodi che meritano veramente di essere riscoperti e soprattutto per la consapevolezza che i Nostri abbiano sempre mantenuto una certa dignità e coerenza, a differenza di colleghi ben più illustri.