Recensione: Grin
Ci sono album incisi e messi sul mercato al momento giusto, album che strizzano l’occhio al trend musicale del momento, zeppi di brani classici a volte un po’ “ruffiani” nel loro proporre stilemi di cui ogni metalhead non può fare a meno. Ci sono poi incisioni che pur avendo tutte le carte in regola per essere dei capolavori non riescono ad emergere dal sottobosco musicale. Si tratta di album mai completamente compresi, capisaldi di un metal elitario aventi l’unica “colpa” di essere troppo avanti. “Grin” dei Coroner è sicuramente uno di quest’ultimi: un album coraggioso, maturo, diverso senza essere indigesto, progressivo senza essere barocco, thrash senza essere old school.
A differenza dei quattro precedenti full-length incisi dal trio elvetico, ci troviamo qui di fronte ad un album totalmente sperimentale, livello evolutivo del loro sound elevato all’ennesima potenza. In questa opera i nostri raggiungono un livello d’avanguardia notevole, trademark che li accomuna sotto certi aspetti ai conterranei Celtic Frost e Samael.
I Coroner ci invitano a questo viaggio musicale attraverso il lato oscuro della mente e della vita con l’intro strumentale “Dream Path”: poco più di un minuto a tinte tribali che precede il primo capolavoro “The Lethargic Age” dove subito viene messo in chiaro quale sarà la direzione di questo vortice paranoico, a volte claustrofobico. Un ritmo incalzante, riff in crescendo smorzati da rallentamenti che permettono all’ascoltatore di prendere fiato.
“Internal Conflicts” è caratterizzata da una cavalcata di doppia cassa che fa da cornice ad un riffing tagliente e veloce che raggiunge l’apice nell’assolo di Tommy T. Baron, chitarrista dalla classe cristallina. Il musicista suonerà successivamente anche nei Kreator, guardacaso durante la parentesi sperimentale di “Outcast” ed “Endorama”. La successiva “Caveat (To the Coming)” ci riporta su ritmi più lenti che fanno piombare l’ascoltatore nei meandri più oscuri della mente, questo anche grazie alla voce di Ron Royce che guida un viaggio senza meta e senza certezze, leitmotiv dell’album.
“Serpent Moves” si sviluppa sinuosamente in un crescendo dove ancora una volta Tommy rifinisce con classe sopraffina un brano che, probabilmente, è l’apice creativo di “Grin”. Come anche il titolo suggerisce, la canzone prende le sembianze di un rettile, riffing e strofe striscianti si muovono serpeggiando fino al ritornello dove un attacco fulmineo della voce di Ron Royce assale l’ascoltatore lasciandolo senza scampo. “Status: Still Thinking” è caratterizzata da ritmi più lenti, atmosfere meno opprimenti e le parole più dure ed arrabbiate vanno scemando, fondendosi nell’intermezzo “Theme for Silence”.
“Paralyzed, Mesmerized” è l’altro brano di punta di “Grin”. I riff accompagnano l’ascolto ripetendosi malinconici per tutta la durata del pezzo. I testi, anch’essi duri e fredde, quasi marziali, elevano ulteriormente la grandezza di questi 8:09 minuti di arte pura, probabilmente inarrivabile. Grandioso anche l’ennesimo assolo di classe cristallina. “Grin (Nails Hurt)” riporta i suoni su lidi più aggressivi: un riffing ‘thrashy’ è accompagnato da toni vocali ruvidi e gutturali che sfociano in un ritornello ancora una volta paranoico. La finale ”Host” chiude degnamente l’album con circa otto minuti di commistioni jazz, psichedelie, rock e metal. Qui viene raggiunto l’apice sperimentale di questo capolavoro.
Quello che emerge per tutta la durata del platter è un rallentamento nelle ritmiche rispetto agli standard precedenti dei Coroner. Si evidenzia una predisposizione a riff più orecchiabili, ma non per questo semplici nonché a strutture corpo canzone più snelle rispetto al passato. Le linee di batteria risaltano grazie ad un mixaggio che le mette in primo piano, senza fronzoli e senza orpelli, ma con uno stile inconfondibile. Resta in evidenza la tecnica pura, figlia di un metal d’altri tempi: tutto sostanza! Le linee vocali rimangono su frequenze standard e distaccate, ideali per accompagnare i temi presenti nei testi.
“Grin” è l’ultimo full-length del trio rossocrociato e, come altri album registrati nella prima metà degli anni ’90 (“Spheres” dei Pestilence – sempre del ’93 – su tutti), rimane una preziosa testimoniaza musicale di un’epoca d’oro del metal estremo d’avanguardia e d’innovazione. La voglia di dare nuova linfa ad un genere che probabilmente aveva ormai detto tutto o quasi fece sì che “Grin” venne screditato da parte della critica e dei fan più oltranzisti non ancora inclini ad assimilare contaminazioni musicali extra metalliche.
“Grin” rimane un capolavoro a discapito della scarsa promozione, senza ombra di dubbio un masterpiece che nel corso degli anni ha ripreso vita. Potrà essere capito fino in fondo solo se ascoltato e assimilato ad occhi chiusi, tutto d’un fiato, senza distrazioni e senza pregiudizi. Non è musica da sottofondo, è arte da assimilare con ossequiosa attenzione…
Lorenzo Picchi