Recensione: Grom
Iniziare la propria carriera con un botto pari a Svantevith – Storming near the Baltic è una fortuna che qualsiasi band vorrebbe. Si tratta però anche di un fardello difficile da sopportare, dato che un così fulgido ed originale esempio di black aveva suscitato non poche aspettative attorno al suo successore. Va detto però che i Behemoth non erano dei novellini, non in senso stretto, giacché oltre ad un full-length i nostri vantavano un discreto numero di Ep. Il nucleo storico della formazione inoltre era oramai molto ben consolidato nel corso degli anni (Adam Darski e Adam Muraszko erano vicini di casa già negli anni ottanta, quando andavano a scuola).
Una situazione però destinata a non durare giacché, come lo stesso Nergal rammenta nella sua biografia, Baal era un uomo in costante metamorfosi ed era ormai giunto il tempo per lui di creare qualcosa di suo, di concentrarsi sulla carriera solista. Fu così che i due diedero alle stampe la loro ultima incisione assieme: Grom, un album registrato per la maggior parte durante la turnée di Svantevit ed uscì meno di un anno dopo l’opera prima, il 2 gennaio 1996, vale a dire che proprio oggi questo album compie 19 anni.
Non solo l’abbandono di Baal comunque, ma anche l’innesto di un bassista in pianta stabile, Les. Non bastasse ciò, come session man esterno si aggiunse Piotr Weltrowski (coredattore della biografia di Darski) come tastierista, nonché la fidanzata di Nergal al tempo, Celina – che trovate pure nel booklet assieme alla band ma a cui soprattutto appartengono le female vocals disseminate nel disco.
Cambiamenti che sembravano forieri di marcati cambi sonori, uniti al fatto di trovare in scaletta due canzoni in polacco (lo stesso titolo Grom, è il termine panslavo con cui viene indicato il tuono). Ed effettivamente Grom è un autentico tuono. Rispetto al suo predecessore si nota infatti un decisivo appesantimento del suono, che qui diventa effettivamente lento e monolitico. Una specie di black rallentato con leggere tinte di gothic a causa delle voci femminili e delle tastiere, decisamente più compatto ed omogeneo rispetto a Svantevith, sebbene gli innesti poc’anzi accennati avrebbero potuto anche ampliare lo spettro delle varietà sonore.
Vengono fuori composizioni rocciose e di solida struttura, peraltro di minutaggio superiore rispetto a quelle di Svantevit come The Dark Forest (Cast Me Your Spell) o Lasy Pomorza. Pure va detto che, ad una struttura solida, non fa da contr’altare un songwriting ispirato. Le canzoni arrancano, manca un pezzo assassino come Through the pagan vast Lands – per dirne uno. Anzi, tutto l’album risente di una produzione troppo scadente. E può sembrar strano che tal frase sia fatta a riguardo di un disco black novantiano, ma è così. La produzione infatti appiattisce e toglie spessore agli elementi più eterei di questo disco, trasformando le tastiere in un pantano cacofonico, una specie di flanger continuo da cui nulla emerge. E non ci vorrebbe molto come insegnarono i Fleurety.
Strano a dirsi dunque, ma a dispetto di buone premesse e di una qualità che effettivamente non può essere messa in discussione, Grom finisce per essere una delle prove più opache, se non la più opaca, nella discografia dei figli di Lech. Ed anche in questo caso, buona parte delle band peggiori pagherebbe per vedere un album come Grom etichettato come una “prova opaca”. Pur pagando dazio a causa di un songwriting poco ispirato ed una produzione che a definirla dozzinale si fa un complimento, Grom presenta infatti alcuni miglioramenti strutturali rispetto al debut dei Behemoth. Indiscutibilmente si intuiscono già i primi appesantimenti che li indurranno negli anni successivi a coniare quel sound di Death Blackened metal. Grom è altresì un disco che confermava Darski & co. per una band ambiziosa e tutt’altro che piatta.