Recensione: Growing Apart
Storia antica ed un vessillo tricolore che torna a sventolare con orgoglio per gli Headless, heavy prog band fondata nei primi anni novanta, responsabile della pubblicazione in età giovanissima di un primo E.P. intitolato “Future To Past”, seguito dal debutto “Inside You”, disco uscito nel corso del 1998 e distribuito dalla gloriosa 99th Floor.
Sciolti dopo un promettente esordio agli albori del nuovo millennio, gli Headless hanno ritrovato la strada smarrita solo dopo un lungo periodo di assenza dalle scene, culminato nel 2011 con la reunion dei due chitarristi e principali compositori del progetto, Walter Cianciusi e Dario Parente, forti di un’esperienza ora maggiormente solida e desiderosi – trascorso ormai più di un decennio – di ritentare un percorso musicale interrotto in modo repentino e prematuro.
Restavano, come ovvio, solo un paio d’incognite di un “certo” peso cui dare risposte esaurienti.
Una volta composti i brani adatti alla release di un nuovo album, a quale label potersi affidare.
Ma soprattutto, come completare la line up, acquisendo la certezza di mettere in campo le giuste dosi di classe, esperienza, bravura e competenza, necessarie al fine di dare pieno risalto ad una miscela musicale ambiziosa e dal taglio raffinato, per stessa ammissione dei protagonisti, influenzata in modo viscerale dallo stile ardito ed elegante dei migliori Queensrÿche.
Le risposte sono state sorprendenti.
Dato il tipo di suono, non deve essere stato, in effetti, troppo complicato per la coppia di ardimentosi musicisti, l’accostarsi ad una label come Lion Music, casa discografica finlandese che sin dalla fondazione si è mostrata profondamente sensibile a tutto ciò che è hard rock e progressive in ogni derivazione e sfumatura.
Un po’ meno semplice e scontato da raggiungere, sembrerebbe invece il doppio colpo che ha condotto in organico un binomio di stelle dal valore internazionale, in grado di elevare le quotazioni degli Headless al rango di eccellenza del settore.
Göran Edman, singer semplicemente straordinario per versatilità ed eclettismo (innumerevoli a dir poco, le collaborazioni realizzate in carriera) è senza ombra di dubbio un biglietto da visita esemplare delle proprie intenzioni di grandezza. Ma ancor di più, il potersi permettere il vanto di posizionare una sorta di “mito” alle pelli, quale Scott Rockenfield, da sempre “motore” dei Queensrÿche, è già di per se ragione di massimo rispetto per il combo tricolore, capace di suscitare curiosità e qualche aspettativa sin dal primo immediato impatto con una formazione dagli elementi tanto blasonati.
Aspettative che, dopo tutto, non sono state neppure deluse ed anzi, lasciano intravedere un talento genuino e definitivo, non solo nella prestazione di due interpreti di lusso come Edman e Rockenfield, ma proprio in virtù di un songwriting mai troppo banale per quanto nemmeno difficile da decifrare: come nelle intenzioni, perennemente in bilico tra suggestioni progressive Queensrÿchiane, frammiste a spunti dal sapore più tradizionale e dall’evidente affinità hard rock. Non mancano poi, riferimenti a Beatles, Glenn Hughes ed al funky blues, genere evidentemente abbracciato in modo da poter costruire, di tanto in tanto, un tappeto sonoro attagliato in modo pressoché perfetto alle espressive vocals di Edman, cantante che in più di un’occasione, in più di un acuto ed in più d’una strofa, riesce a sovrapporsi alla grandezza del maestro Glenn Hughes.
Brani articolati, talora non di facilissima assimilazione, si alternano in una tracklist non eccessiva nei numeri e – a dispetto di un’anima di dichiarata affiliazione “prog” – compatta nel minutaggio dei singoli episodi, di rado condotti oltre i quattro minuti di durata.
Gli Headless, dobbiamo dirlo, ci piacciono in particolar modo quando è l’anima melodica ad impadronirsi del proscenio, trovando proprio nell’ugola di Edman la sublimazione assoluta di atmosfere ricercate seppur mai spinte al virtuosismo ossessivo.
Molto buone ad esempio l’iniziale “God Of Sorrow And Grief” (dalle ascendenze quasi moderniste nel sound) e la successiva “Primetime”, brano dall’essenza progressiva, mediata a cori che rimembrano i già citati Rÿches.
“Calf Love”, la title track “Growing Apart” e la “flessuosa” “No Happy Ending” (con un Edman in alcune situazioni quasi accostabile al Duca Bianco, David Bowie), sono poi la vera eccellenza di un album come “Growing Apart”, platter che, come ogni prodotto prog che si rispetti, si mostra bisognoso di un certo numero di passaggi per una felice e piena assimliazione delle numerose sfumature che ne compongono l’essenza.
Un gradito come back per questa valente coppia di artisti nostrani, senza alcun dubbio, ottimi esecutori quanto – in ugual misura – validi songwriters e compositori. “Growing Apart”, secondo album che arriva dopo tanti anni, lascia aperte grosse prospettive per un buon futuro artistico, viatico per il raggiungimento di qualche bella soddisfazione che vada oltre il già comunque eccellente merito di condividere una fetta della propria carriera con nomi altisonanti del panorama heavy-rock-progressive mondiale.
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