Recensione: Hadeon

Di Marco Tripodi - 26 Gennaio 2018 - 8:00
Hadeon
Band: Pestilence
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2018
Nazione:
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73

Dal loro ritorno sulle scene per volontà di Mameli con “Resurrection Macabre” (2009) i Pestilence del XXI secolo hanno raccolto pareri discordanti, chi ha giubilato per il rientro in battaglia di uno dei nomi più illustri della scena metal estrema a cavallo tra anni ’80 e ’90, chi si è subito stizzito per una non pedissequa aderenza agli album con cui gli olandesi si erano congedati dai propri fan (“Testimony Of The Ancients” e “Spheres“), chi ha soppesato in modo più pragmatico e oggettivo i nuovi passi discografici della band. Intanto non deve sfuggire che questi Pestilence non sono “quei” Pestilence, banalmente per la mancanza di 3/4 della line-up, anche se Tony Choy perlomeno ha condiviso con Mameli la militanza su “Testimony” e “Resurrection“, e Uterwijk è stato ininterrottamente nella band da “Consuming Impulse” al penultimo “Obsideo“. Il comeback album “Resurrection Macabre“, oltre a permettere al gruppo di sgranchire le gambe dopo oltre tre lustri di inattività, è servito anche a mettere i puntini sulle “i”, ovvero a stabilire i binari del nuovo percorso della Pestilenza. L’avanguardismo e le contaminazioni dei due platter più cervellotici della discografia in oggetto sono stati quasi del tutto espunti dal songwriting a guida Mameli, per far posto ad un extreme metal ad altissimo tasso tecnico comunque, ma indirizzato prevalentemente ad un assalto feroce e potente.

I successivi “Doctrine” (2011) e “Obsideo” (2013) sono sostanzialmente andati nella stessa direzione (più “Obsideo“, meno “Doctrine“, forse il più criticato tra gli album dei nuovi Pestilence) e l’odierno “Hadeon” rimane abbastanza coerente con l’assioma di fondo, anche se c’è un ma. Dei lavori pubblicati sin qui, “Hadeon” è quello che più di altri si avventura nel gettare un ponte con gli anni ’80 di “Malleus Maleficarum” (1988) e “Consuming Impulse” (1989). Tra i suoi solchi il groove è disadorno; salvo le accelerate di “Timeless“, sull’album non troviamo praticamente blast-beat (che invece signoreggiavano su “Obsideo“) bensì up-tempos, spediti e inesorabili quanto si vuole, ma assai più prossimi al thrash/death degli esordi che ai tempi sbilenchi del prog/jazz/death di “Testimony” e “Spheres“. Mentre sul versante chitarra, soprattutto in fase di assoli rimane quel gusto spiccato per acidità e dissonanze; così come per i riff, che spalmano sistematicamente le note tra un colpo e l’altro di rullante, secondo una simmetria algebrica ed una cadenza costante. Tirando le somme, pare evidente che Mameli abbia leggermente corretto il tiro, provando a recuperare in qualche misura delle reminiscenze dei primi Pestilence. Intendiamoci, “Hadeon” è comunque più in sintonia con la recentissima produzione della band che con i dischi di 25 e passa anni fa, è però anche vero che un’idea di ibridare le due anime qui si avverte più che altrove.

Personalmente sono un sostenitore indefesso dei Pestilence, tanto di quelli storici (come non esserlo?) quanto di quelli attuali, che faticosamente ma con personalità stanno costruendo la nuova fisionomia del gruppo, più concreta ed immediata magari ma non meno pervasiva e carismatica. Ho apprezzato molto anche il bistrattato “Doctrine“, credo che “Resurrection Macabre” sia un ritorno con i controfiocchi e “Obsideo” mi è parso un gran portento; in tutta sincerità, ad averne di band così in palla, con una storia altrettanto ingombrante alle spalle. “Hadeon” è un lavoro di spessore, poggia su di un mestiere solidissimo e ha dei momenti di assoluto pregio (“Non Physical Existent“, “Multi Dimensional“, “Materialization“, “Manifestations“); credo che dei quattro album post 2000 sia forse il più “facile” dei Pestilence, sia per quanto riguarda lo sforzo richiesto a chi si pone all’ascolto, sia per quanto attiene all’approccio compositivo di Mameli, il quale stavolta si è limitato ad assemblare alcuni tra i trademark più caratteristici e consolidati del marchio Pestilence, lustrando l’argenteria e mettendola in bella mostra.

I dischi precedenti si prendevano qualche rischio in più, ma rimane comunque un bel sentire, anche perché il presupposto di fondo – almeno questa è la mia opinione – è che il livello di partenza sia sempre alto, spesso e volentieri una spanna sopra gli altri, per cui anche laddove i Pestilence giocano un po’ sul velluto, riprendendo fiato e ottimizzando magari stilemi già tracciati e definiti, riescono a ben figurare, intrattenendo a dovere l’ascoltatore e trasportandolo su piani astrali fitti di grandi verità filosofico-scientifiche e infestati da minacce tecno-orrorifiche, come descritto nei loro testi. Nonostante tutto, sono ancora pochi i concorrenti su piazza in grado di tenerne il passo. A mio avviso il cammino dei Pestilence (che sono e rimangono sostanzialmente Mameli, più i gregari turnisti del caso) prosegue positivamente, anche se in leggera flessione rispetto al precedente capitolo discografico; ogni nuova ripartenza è un po’ una scommessa per il bodybuilder olandese e stavolta infatti abbiamo dovuto attendere parecchio per avere nuovo materiale. Speriamo di non dover aspettare i tempi dell’avvento del cyber-mondo prefigurato nei dischi del gruppo per poter tornare ad ascoltare altri inediti dei Pestilence.

Marco Tripodi

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