Recensione: Hades Rising
Basta poco per descrivere il nuovo lavoro della corazzata Defiatory, quintetto di vichinghi dedito a un thrash aggressivo e cafone, e quel poco è: “botte, botte e ancora botte” . I nostri nascono nel 2015, quando il chitarrista Ronnie Björnström si sgancia dai deathster Aeon e si mette in contatto con Martin Runnzell per creare, appunto, i Defiatory. Il debutto ufficiale – se si esclude il demo “Furor Unleashed” – arriva un anno dopo con “Extinct”, e dopo altri due annetti eccoci qui a trattare questo “Hades Rising”. I nostri, nonostante le origini scandinave, non nascondono il loro amore incondizionato per il classico thrash metal di impostazione americana (leggasi Bay Area), che viene però screziato dal gusto tipicamente svedese per l’uso di certe melodie e da un piglio moderno appena accennato, che per fortuna si ferma un attimo prima di iniziare a far puzzare il tutto di ruffianata. Undici tracce, tre quarti d’ora abbondanti e, come vi ho anticipato prima, tante, tante martellate. I nostri il loro lavoro lo sanno fare e lo fanno molto bene, andando a ripescare la malvagità isterica degli Slayer e dei Kreator e miscelandola col groove di certi Exodus, condendo il tutto con l’ariosa solidità dei Testament e una spruzzatina qua e là di death melodico. Lungi, però, dal voler passare come una semplice assemblatrice di influenze diverse, la nordica compagine ci mette tanto del proprio, creando architetture sonore complesse e personali e affrescandole con riff precisi e aggressivi, illuminandoli poi col vocione alcolico e rissaiolo di Martin e legando il tutto con una produzione bella grassa. Niente riempitivi inutili, nessun vero e proprio calo (anche se un paio di brani un po’ monotoni ci sono) e pochissimi segni di cedimento: “Hades Rising” martella in modo inesorabile per tutta la sua durata, dispensando melodie guerrafondaie e calci nei denti senza dimenticarsi della giusta dose di arroganza, scolpendo un prodotto finale a suon di meticolose scalpellate chitarristiche e variegati assalti ritmici.
Basta ascoltare la furia caleidoscopica dell’opener “In Hell” per entrare nel mood che ci accompagnerà per il resto dell’album: apertura maestosa e granitica, venata da una corrente sotterranea velatamente inquieta che si perde, infine, nel violento marasma successivo, solo di tanto in tanto screziato da brevi rallentamenti che caricano il brano di groove. “Dance of the Dead” parte più scandita, riecheggiando la cadenza dei Testament di fine millennio (anche grazie a Martin che ricorda molto, come impostazione vocale, un incrocio tra il colossale Chuck Billy e Tom Araya) screziati però da una maggiore ricerca di melodie accattivanti e coatte, salvo poi cedere il posto a una certa anarchia rumorista in corrispondenza del solo, mentre “King in Yellow” si apre, invece, con il rumore della pioggia e una campana a morto sovrastati da un cupo arpeggio e un sussurro perfido. Il groove intenso e l’incedere maligno spadroneggiano per tutta la canzone, dominata da tempi quadrati e marziali, e si intensificano ulteriormente durante il ritornello molto carico di pathos, prima di chiudersi definitivamente sfumando di nuovo nell’arpeggio iniziale e nel suono delle campane.“Stronger than God” riparte a spron battuto, con una classica traccia thrash rissosa e ritmatissima, in cui le aperture melodiche durante l’ignorantissimo ritornello rafforzano la carica combattiva del pezzo e tengono alto il ritmo in vista della debordante frustata di “Death Takes Us All”, i cui vigorosi echi slayeriani le consentono di fare terra bruciata intorno a sè e di sicuro faranno la felicità di più di un ascoltatore, con buona pace della sua spina dorsale. Si arriva così a “Morningstar”, in cui la carica aggressiva (e anche piuttosto tamarra) dei nostri si stempera grazie a un maggior uso di melodie e ritmi di nuovo abbastanza scanditi, che lasciano trapelare le origini del combo; proprio per questo, la canzone è forse la meno intensa dell’album, ma si lascia ascoltare grazie a un’atmosfera di fondo abbastanza piaciona. Un discorso grossomodo simile si può fare per la successiva “Down to His Kingdom Below”, in cui i nostri tornano a snocciolare ritmi battaglieri stemperando il tutto solo durante il ritornello più melodico; rispetto alla traccia precedente non si può non registrare una bella iniezione di arrembante cattiveria, anche se il substrato di death melodico e il tentativo di avvicinarsi al cosiddetto modern metal si sentano ancora abbastanza. Con “Metatron” si alza di nuovo il tasso di adrenalina, confezionando una traccia corpacciuta e arzilla in cui melodia, ritmo e malignità coesistono molto bene grazie a quello splendido legante che risponde al nome di cafonaggine, ma è con “Bane of Creation” che i nostri piazzano un’altra zampata. La traccia si dipana su ritmi agili ed è pervasa da una tensione costante, distendendosi su un tappeto di riff classicamente thrash che esplodono in un ottimo ritornello, intimidatorio e maestoso al tempo stesso. Molto bella anche la sezione solista che, a sua volta, apre al gran finale e cede il passo alla successiva e nervosa “All that Remains”. La canzone procede in modo molto ritmato, quasi arcigno direi, artigliando il terreno per una migliore presa in vista del balzo finale che, però, non arriva, lasciandomi così con un po’ di amaro in bocca nonostante la preparazione meticolosa e pregna di aspettative. Chiude l’album la title track in cui, nonostante permangano alcune delle perplessità maturate nella traccia precedente, si torna a percepire l’aura aggressiva e velatamente tamarra del “trademark Defiatory” grazie a una traccia insistente e diretta, sfaccettata il giusto e coronata da un assolo breve ma molto d’impatto.
In ultima analisi “Hades Rising” risulta un ottimo lavoro: molto preciso, intenso, tecnicamente al di sopra della media e carico di quella tamarraggine sonora violenta che non può che far bene a qualsiasi amante del thrash metal più groovy. Certo, non c’è niente di particolarmente originale, ma in fondo a chi interessa?