Recensione: Hagakure (葉隱)

Di Elisa Tonini - 12 Marzo 2019 - 7:41
Hagakure (葉隱)
Etichetta:
Genere: Folk - Viking 
Anno: 2018
Nazione:
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82

Nel metal c’è chi rende protagonisti più strumenti tradizionali e c’è chi punta su uno strumento tipico in particolare, una sorta di marchio di fabbrica. Nell’ultimo caso abbiamo gruppi come i tunisini Nawather con il qanun e, andando a Taiwan, troviamo band come i Chthonic con l’erhu ed i presenti Bloody Tyrant con il pipa. L’uso di questo strumento coincide con l’uscita dell’EP “The Overture of Sun Moon Lake” (2012), lavoro che rivoluzionò il grezzo esordio in una sorta di folk/symphonic black decisamente elegante. “Solitary Eagle” (2017), invece, da un lato scarnifica il sound dall’altro si rinnova con spunti stravaganti e con monolitici innesti death metal melodico, genere che viene fortemente ripreso nel loro quarto album “Hagakure” (2018). Ci sono però diverse sorprese in più.

Inaspettatamente l’ispirazione del nuovo full-lenght arriva dal mondo giapponese, cultura che si impossessa anche del trademark pipa. “Hagakure” in lingua nipponica significa “All’ombra delle foglie” e lo stesso nome è anche il titolo di un’opera letteraria scritta da Yamamoto Tsunetomo e relativa allo spirito ed al codice di condotta dei samurai. Il pensiero, la filosofia di vita e di morte di questi guerrieri è pure la tematica delle tracce, che paiono tentare di replicare le loro emozioni segrete avvalendosi di una struttura musicale complessa e contrastante . La base è sostanzialmente un grintoso death metal melodico reso all’occorrenza triste e disperato da inserti o arrangiamenti post metal vicino agli Agalloch ed agli Alcest. Fanno capolino, in certi casi, tinte doom e gotiche, sprazzi black, assoli virtuosi, ed emerge volentieri una trascinante epicità resa a volte luminosa e vivace ed altre volte spiritualmente zen. Per enfatizzare l’epicità è determinante l’uso del pipa, affiancato quando serve da altri strumenti tradizionali e non, elementi che paiono inoltre riflettere l’elevato grado di cultura dei militari e ricreare paesaggi di quei tempi antichi. Il growl, cavernoso e mai monocorde è decisamente efficace, come del resto lo è l’acre scream, dotato di una forza esplosiva. I cori in clean quando presenti, sono capaci di amplificare un’impostazione decisamente eterea oppure accentuare uno spirito cameratesco. Il senso fraterno risplende in “Blade Philosophy”, brano estremamente avvincente nella sua immediatezza fiabesca così come nella sua tensione combattiva. Tale stato d’animo esplode però in “Facing Death”, perfetto incontro tra l’epica tradizione giapponese ed uno stile moderno a tratti groove dall’aria cupa. Ipnotico poi il suo quid simil-elettronico ed originali certi passaggi chitarristici.

L’oscurità prevale sul trio “Ceremony of Suicide”, “Tower of Sadness” e “Reflection”. Le ritmiche, generalmente più lente, dilatate e le forti reminiscenze post- metal accentuano un carattere assai pensieroso, mesto e torbido. Nel tessuto sonoro delle prime due canzoni (specie la seconda) emergono anche istinti doom ed un cupo sentimento gotico a cui fa da contrasto un’epicità sfavillante, mentre “Reflection” colpisce in tutt’altro modo. Il brano è infatti una sorta di crescendo estremamente carico di pathos ultraterreno. Dapprima inganna con un trionfo di pace dei sensi per poi, a sorpresa, sfoderare sonorità laceranti eppure reattive. Infine, esso ritorna sul sognante acustico -in chiave più malinconica- con cui è iniziato.

Riprendendo le note finali di “Reflection”, quasi a rappresentare una continuità dei pensieri, inizia la traccia di apertura “Pace into the Void”. Assieme ad “In The Shadows Of The Leaves” condivide una struttura immediata ed istintiva ma tutt’altro che semplice (quest’ultima caratteristica si trova particolarmente nella già citata “Blade Philosophy”). Anche “Empty Mind” in qualche modo le è simile ma risalta decisamente per via delle sue riuscitissime progressioni tra melodie sognanti e brutali intervallate da refrain dall’animo assolutamente aggregante. L’ improvviso scream black verso la fine dà il colpo di grazia.

Con “Hagakure” i Bloody Tyrant propongono un lavoro omogeneo negli intenti, come non capitava dal buonissimo “Legacy Of Sun- Moon Lake” (2015). Assimilabili a tratti con i connazionali Chthonic, la band di Nantou possiede un tocco ben definito e riconoscibile, mantenuto intatto nonostante qui si siano decisamente reinventati. L’attenzione alle melodie folk è ancora più curata rispetto al passato, la produzione è essenziale ma potente ed esalta in modo adeguato gli aspetti emotivi delle tracce. Può lasciare inizialmente spiazzati l’uso dell’inglese a scapito del cinese, ma dato che si parla di samurai e di sonorità ispirate al mondo giapponese, forse l’uso di tale lingua avrebbe cozzato con la coerenza di fondo. Si potrebbe quindi considerare l’inglese una scelta “neutrale”. Consigliati un po’ a chiunque ami il folk metal, tuttavia potrebbe essere apprezzato pure dagli ascoltatori di death metal melodico e di altri generi.

Elisa “SoulMysteries” Tonini

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