Recensione: Fauna

Di Roberto Gelmi - 2 Marzo 2023 - 12:00
Fauna
Band: Haken
Etichetta: Insideout Music
Genere: Progressive 
Anno: 2023
Nazione:
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86

Settimo full-length in studio per gli Haken che vedono il ritorno in line-up del tastierista delle origini Pete Jones. L’artwork di Dan Goldsworthy è sicuramente a effetto (riuscite a trovare la ventina abbondante di animali e insetti raffigurati?) e i nove pezzi in scaletta confermano la bravura della band inglese, una delle poche a non deludere anche sulla lunga distanza. Diciamo di più, Fauna è per molti versi un album superiore al precedente Virus e mostra una band che ha infine limato un proprio stile inconfondibile.

Sono passati infatti 16 anni dalla fondazione del gruppo e il loro valore aggiunto resta la voce di Ross Jennings, il mix di stili e il math rock poliritmico che li vede sempre in equilibrio tra sperimentazione e fan service. In questi anni i nostri hanno dato prova anche di maturità artistica proponendo musica al di fuori della band che li ha consacrati; i risultati non sono stati malvagi, se pensiamo al progetto Troika e Novena che vede al microfono Jennings e l’album solista di Charlie Griffiths Tiktaalika…

Gli Haken hanno iniziato a comporre fauna sullo scorcio del 2020 e ultimato i lavori nel febbraio 2022. A detta dei loro creatori, l’idea di fondo era di abbinare a ogni canzone un animale, simbolo d’un lato della personalità dei musicisti. Leggendo alcune interviste ai musicisti, scopriamo ad esempio che “Eyes of ebony” non parla solo di animali a rischio d’estinzione, ma è dedicata al padre di Richard Henshall (il maestro della chitarra headless), primo supporter della band morto d’infarto nel 2021. “Taurus” tratta della migrazione di massa degli gnu africani nel Serengeti, ma si collega anche alla scompaginazione dei confini ucraini e alla tragedia della guerra in corso. “Lovebite” invece presenta in modo ironico la fine di un amore usando la metafora della vedova nera che uccide e divora il partner.

Ma andiamo con ordine. L’album inizia con una potenza inedita per gli Haken (forse solo in Virus si toccano momenti altrettanto spigolosi). “Taurus” è un biglietto da visita da prendere o lasciare, non si poteva posizionarlo altrove, chi non ama le ritmiche djent è avvisato! Anche “Nightingale” richiede dedizione all’ascolto, non è un brano easy-listening ma questo non è mai stato il principale intento dei nostri.

The alphabet of me” è un pezzo che abbassa la potenza e i bpm per regalare tutto l’eclettismo degli Haken. Già apprezzato come singolo apripista, il brano propone un mix di stili intrigante e tutto funziona a meraviglia, inclusa l’inaspettata coda finale con inserti di tromba. Per chi ama le ritmiche intricate la successiva “Sempiternal Beings” è una manna dal cielo. La traccia ha un andamento sornione fatto di momenti dilatati e repentine impennate sonore; c’è spazio tuttavia per il divertimento dei tempi dispari. Le parti di batteria suonate da Ray Hearne sono una goduria e nel finale il riffone di chitarra modulato manderà in visibilio i fan.

All’avvio di “Beneath The White Rainbow” troviamo un accostamento tra ritmiche heavy e pianoforte. La presenza di questo strumento stupisce anche a metà del brano perché dialoga sapientemente con la chitarra elettrica creando una sezione strumentale complessa e vicina alla fusion. La voglia di sperimentare non manca, la troviamo anche nel prosieguo con alcune parti con filtri vocali al limite del fastidioso, ma in un pezzo simile possono anche starci, anche perché il ritornello resta melodico.

Ricompaiono elementi djent in “Island In The Clouds”, forse il pezzo meno incisivo in scaletta. Fortunatamente il disco torna a stupire con l’attacco al fulmicotone di “Lovebite”. Sembra che gli Haken vogliamo emulare i Dream Theater di “Pale Blue Dot” ma con una marcia in più. E la cosa che lascia ammirati è constatare come il brano integri una vena divertita a ritmiche prog metal affilate: gli Haken riescono in un simile mix, chapeau.

Gli ultimi venti minuti si dividono in due pezzi dal minutaggio non indifferente. Non parliamo di suite come la recente “Messiah Complex”, ma siamo comunque di fronte a due brani dallo sviluppo dilatato. “Elephants Never Forget” conquisterà subito i fan, ci sono sonorità che rimandano a The Mountain e la pazzia prog domina incontrastata. Il main theme di chitarra è qualcosa di ben rifinito, sembra di sentire il Petrucci che fu, ascoltato anche decine di volte non stanca mai. Il pezzo nei suoi undici minuti passa da atmosfere silly a sezioni tirate e ardite (vedi ottavo minuto). Se esiste un neo progressive metal, siamo di fronte alla sua quintessenza.

Fauna poteva finire con questa prova di bravura e invece ci lascia con l’ultima composizione in scaletta, la già citata “Eyes Of Ebony”. Come anticipato, è il dovuto tributo al lutto del chitarrista Richard Henshall, ha una sua complessità ritmica, a tratti spezzettata, e un finale onirico. Come epilogo non stona affatto.

Come ci si sente dopo l’ascolto dell’ultima fatica in casa Haken? Sicuramente soddisfatti, non si può parlare di delusione, anzi, le aspettative sono state confermate. Promuovere Fauna e candidarlo per la top 10 prog. dell’anno viene naturale: il ventaglio sonoro è variegato, si va dal djent spigoloso dell’opener “Taurus” al progressive theateriano di “Elephants Never Forget”; non mancano riffoni potenti, l’eclettismo e la melodia. Gli Haken inoltre dimostrano di continuare il loro percorso di desatellizzazione dai propri padri putativi e regalano alcuni momenti di musica esaltante (chi ha detto l’attacco di “Lovebite”?). Chi li ha visti o li vedrà in tour con i Between the buried and me potrà dire di aver assistito a uno show memorabile.

 

 

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