Recensione: Halfway Human
Sulla piazza dal lontano 2003 e con all’attivo ben cinque album compreso il recentissimo “Halfway Human” e tre EP, i Within The Ruins non sono una di quelle band cui chiedere originalità e innovazione.
La loro proposta si colloca grosso modo a mezza via tra il technical deathcore e il metalcore con qualche pertinente escursione verso l’extreme progressive e un certo qual gusto elettronico e, pur non brillando per originalità o particolari segni distintivi, va detto che il quartetto statunitense fa il proprio sporco lavoro in maniera onesta e con una certa abnegazione.
Tim Goergen, titolare del microfono dai tempi di “Invade” (2010), ringhia da par suo per tutte le undici tracce, dimostrando di sapersi destreggiare in maniera onorevole anche con il cantato in voce pulita (peraltro coadiuvato dal bassista Paolo Galang) in mezzo alle robuste ritmiche guidate dal guitar work di Joe Cocchi, sapientemente in grado di alternare sprazzi ipercinetici con “pause” dal notevole groove.
Brani come l’opener “Shape-Shifter, la successiva “Death Of The Rockstar” e in generale buona parte della scaletta di “Halfway Human” hanno il solo dichiarato obiettivo di frantumare ossa e timpani riuscendo anche a divertire gli amanti di queste sonorità. Obiettivo indubbiamente non troppo “alto” ma altrettanto indubitabilmente centrato senza andare troppo per il sottile.
Altri brani, come per esempio il singolo “Beautiful Agony”, rallentano leggermente lasciando più spazio al groove e a ritmiche cadenzate, mentre le cose più particolari si riscontrano negli episodi in cui i Within The Ruins concedono maggior sfogo alla fantasia dando vita a momenti piuttosto interessanti quali “Incomplete Harmony”, con i suoi beat al limite del dub, o la successiva “Bittersweet”.
Ancor più estreme e “sperimentali”, infine, le particolarissime “Absolution” e “Ivory Tower”, con le chitarre talmente distorte ed effettate da sembrare keys sintetiche, i lunghi assolo di chitarra con più di uno spunto neoclassico e certe armonizzazioni di ispirazione classic heavy che non t’aspetti.
Verso il finale trovano poi posto il melodic metalcore di “Sky Splitter”, la strumentale technical progressive “Ataraxia IV” e la possente “Treadstone”, di nuovo in linea con il groove/deathcore tipico della band statunitense: gli ultimi bocconi di una pietanza certamente varia e non per tutti i palati ma con degli indubbi pregi.
Se vi piacciono il metalcore, il groove metal e derivazioni varie e cercate un disco pesante, tecnico, vario e a suo modo divertente, pur non inventando nulla e non potendo vantare delle vere e proprie potenziali hit, “Halfway Human” dei Within The Ruins farà certamente al caso vostro.
Astenersi, ovviamente, tutti coloro che non digeriscono manco per ipotesti questo genere di ibridi.
Stefano Burini