Recensione: Hall Of The Mountain Grill
S’era detto, parlando di Doremi Fasol Latido, di come la fortuna dopo quell’album avrebbe volto le spalle agli Hawkwind, ed ora è venuto il momento di spiegare come, quando e perché.
Si era nel 1973, quando la comune artistica capitanata da Dave Brock, sulle ali dell’entusiasmo di un disco dal vivo monumentale come Space ritual alive, aveva deciso di dare alle stampe un nuovo singolo che avrebbe fatto da apripista al nuovo LP di studio. Non era ben chiaro però se il pezzo sarebbe infine stato incluso in quell’LP, un po’ come era successo a Silver Machine l’anno prima.
La canzone portava il titolo di Urban Guerilla, altra grandissima hit della formazione inglese, la prima che vedeva Bob Calvert come autore delle liriche. Pezzo figo, tirato, spaccaculi, entrò subito al 37 nella classifica britannica, dando l’idea di consacrare il vento del falco all’empireo del rock planetario. Solo che poche settimane dopo l’IRA la Urban guerilla la mise in atto davvero e in quel di Londra un bel po’ di bombe saltarono in aria. Reazione immediata, la BBC si rifiutò di passare il singolo in radio, per quanto il testo fosse stato scritto nel 1971 e con intento ironico. Il signor Kilmister (che dopo Hall avrebbe lasciato la band) dirà in seguito che Calvert si era ispirato ad un gruppo di anarchici presenti ad un concerto degli Hawkwind. Del Dettmar ancora oggi scherza sul fatto che Urban Guerilla finisca nelle colonne sonore di tutti i documentari dedicati all’IRA dal 1990 in poi. Però è fuori discussione che gli Hawkwind in quel ’73, seppur perennemente dispersi nei loro viaggi cosmici a base d’acido e spezie varie abbiano accusato il colpo e abbiano cambiato sonorità per realizzare, proprio mentre il grande pubblico voltava loro le spalle, quella che è la loro massima vetta espressiva: Hall of the mountain grill.
Si noti bene il cambio di rotta che parte sin dal titolo, volutamente scherzoso nel suo riferimento a Edward Grieg eppure tutt’altro che insensato. Se guardiamo la formazione infatti, ampiamente confermata, noteremo comunque un vario impiego di tastiere, synth e mellotron, che hanno sempre dato un’idea di synfonico dacché il prog è prog. Ciò non bastasse, abbiamo l’innesto di Nik Turner al mellotron e al violino. Ne consegue che il sound ruvido presentato su Doremì si ammorbidisce e si arricchisce di sfumature spaziali sognanti, e lo si capisce sin da subito con l’apripista, successivamente singolo di pregio: Psychedelic Warlords (Disappear In Smoke – anche qui la guerriglia non la vogliamo), quella che con buona probabilità è la Hawkwind song perfetta nel suo mischiare psychefloydia ad una base pulsante, sanguigna e protopunk (Lemmy era già Lemmy, sebbene in questa sede avesse ormai imparato a padroneggiare il quadricorde). Ritmiche groovose ma anche assai hyppie, strofa doppia assassina ripetuta quattro volte a mo’ di ritornello progressivo. Psychedelic Warlords poi è una canzone che effettivamente sparisce nel fumo, lasciando spazio ad un vento che spazza una desolata landa extraterrestre, Wind of change, laddove il buon Simon House si presenta alla grande assieme a tutti i cambi di suono che porta al nuovo sound Hawkwind. Una ballad strumentale, quasi al confine con la musica classica, tanto è dominata da mellotron e violino solista. E a scanso di equivoci, gli Scorpions probabilmente non l’hanno mai sentita.
Con un’altro pezzo malinconico, D-Rider si torna alle chitarre elettriche scandite che potrebbero rivelare ai più attenti una chiara anticipazione del punk, non fosse per il largo uso di synth e flanger (anche sulla voce) a mantenere il tutto su chiari binari psichedelici. Suoni ed effetti che rimangono su Web Wavers, che dovrebbe coprire la nicchia del “pezzo folk” come era toccato a We Took The Wrong Step Years Ago, solo che non si tratta più di un un pezzo di chitarra acustica, voce e synth. Al contrario, anche in questo caso si tratta di una song ricca, guidata da un piano da America secessionista, che riprende sì il folk, ma quello dei Grateful Dead di Aoxomoxoa. You’d Better Believe It ci riporta indietro nel tempo, alla classica cavalcata Hawkwind tipo You shouldn’t do that. Questo pezzo evidenzia nettamente come gli Hawkwind però, a partire da qui, vireranno verso un suono molto più stratificato ed al contempo accessibile, con un songwriting molto più studiato soprattutto in sede di canto, ed una decisa riduzione delle jam interminabili come si nota dal fatto che, seppur tre canzoni superino i 6 minuti, nessuna passa i 10.
La title track è un’altro inquietante pezzo sinfonico fantascientifico, mentre Lost Johnny vede il prepotente ritorno di ritmi groovosi, al limite del rock’n’roll, con la scazzata voce di Lemmy ad irruvidire i synth. Praticamente Lost Johnny è una canzone dei Primal Scream, soprattutto quelli di Give Out But Don’t Give Up, solo che è stata incisa 13 anni prima che Robert Gillespie fondasse la propria band, e non bastasse ciò Give Out But Don’t Give Up è del 1994. Goat Willow è un altro, brevissimo pezzo strumentale che conduce alla conclusiva Paradox, praticamente un rimasuglio di Doremi Fasol Latido, decisamente sporca, groovosa e chitarrosa, ma ancora una volta molto ben studiata.
Insomma, nonostante condizioni esterne tutt’altro che favorevoli gli Hawkwind reagirono al solito con un disco contaminato ed innovativo, tuttavia assai diverso da quanto Brock & co. avevano proposto sino ad allora. Un disco che, escludendo force il live Space Ritual, rappresenta il vertice assoluto della sterminata discografia degli Hawkwind. Forse avrebbe meritato fortune migliori come riscontro di pubblico. La band che più di ogni altra ha saputo fondere prog e punk meriterebbe più fortuna al di fuori della terra d’Albione e della testa di Arjen Lucassen. Almeno la stessa fama di cui gode la band che per prima ha fuso prog e hard rock, gli Uriah Heep.
Tiziano Vlkodlak Marasco
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