Recensione: Hammer Damage
È con un misto di interesse e timore reverenziale che mi sono avvicinato a “Hammer Damage”, settimo studio album di quelle vecchie triglie dell’heavy metal che rispondono al nome di Omen. Visti inizialmente come “la risposta americana agli Iron Maiden”, i nostri hanno saputo creare, nel periodo d’oro del metallo pesante, una manciata di gioiellini di caratura superiore di cui mi limiterò a citare il fulminante esordio, il debordante “Battle Cry”.
Oggi, dopo anni di presenze a singhiozzo, latitanze, ritardi e sfighe varie, vede finalmente la luce questo album: dico finalmente perché, almeno se non ricordo male, l’uscita ufficiale di “Hammer Damage” era prevista per il lontano 2012, salvo poi slittare a data da destinarsi e sparire fino ad oggi tra i nebulosi tentacoli della Matrice. Perfino l’artwork dell’album sembra voler enfatizzare questo dettaglio presentando una copertina fumosa, con martelloni incrociati molto demodé e toni di grigio dappertutto, illuminati dagli occhi fiammeggianti del cobra che campeggia sotto il logo del gruppo e che i fan riconoscono da lontano un chilometro. Bene: l’arroganza visiva c’è, ora pigiamo play.
L’apertura è affidata alla title track, introdotta da un coro di saluto che, sorretto da un bel giro di basso, prelude l’entrata in scena della voce al vetriolo di Kevin Goocher. Dato che questo è il mio primo ascolto di un album degli Omen con il “nuovo” cantante mi permetto di fare un appunto sulla sua resa, a vantaggio di coloro che sono nella mia stessa situazione, prima di continuare: se siete dei nostalgici del compianto Kimball state attenti, la timbrica di Kevin è assai diversa dalla sua e più vicina, come stile, a un Chris Boltendhal dei Grave Digger. Per questo motivo potrebbero volerci ripetuti ascolti per assimilare il cambiamento, così come non è detto che la suddetta assimilazione arrivi mai. Personalmente la voce di Kevin mi ha dato più di una gatta da pelare durante gli ascolti, ma devo anche ammettere che dopo il primo, brutale impatto, durante il quale ho pensato “Per tutti i Valar, dove sono capitato!” è pian piano sopraggiunto il principio di quel processo di assimilazione cui accennavo prima.
Conclusa questa doverosa parentesi, torniamo alla canzone: “Hammer Damage” scorre bene, alterna un inizio maligno ad uno svolgimento più corposo e ritmato con il basso di Andy Haas bene in evidenza, ma a mio avviso si poteva fare di più. Forse è solo un problema mio, ma secondo me la canzone non aggredisce l’ascoltatore come dovrebbe fare un’opener che si rispetti: per tutta la durata della canzone sembra che qualcosa ne comprima il suono, lo trattenga, tarpandole le ali ed impedendole di esplodere dalle casse. Purtroppo questo difettuccio farà spesso capolino durante l’ascolto di “Hammer Damage”, penalizzando secondo me soprattutto la resa della batteria di Steve Witting ma, ripeto, potrebbe essere solo una mia fissazione.
“Chaco Canyon” prosegue più o meno lungo le stesse coordinate, rallentando di poco i ritmi rispetto alla traccia precedente: ne scaturisce una marcia insistente e maligna che però ha il grosso difetto di non avere nessun guizzo, impennandosi solo lievemente in corrispondenza dell’incursione strumentale che introduce un assolo discreto ma non particolarmente incisivo. Anche qui traccia carina ma niente di più. Finalmente i ritmi iniziano a farsi sostenuti con “Cry Havoc”, in cui s’inizia ad avvertire nell’aria il profumo dei primi Omen, con la chitarra del buon Kenny Powell che macina riff e assoli come ai vecchi tempi e la voce di Kevin che, pur non essendo all’altezza del glorioso predecessore, sembra iniziare ad ingranare e si destreggia abbastanza bene in questo brano più adrenalinico.
Con “Eulogy for a Warrior”, traccia lenta e solenne, il tasso di epicità s’impenna, mentre Kevin si ripulisce la voce per donare più espressività e pathos alla composizione (strumentalmente molto affascinante) tornando alla solita voce gracchiante solo in un paio di occasioni. Il risultato mi ha – e mi spiace dirlo – ricordato un brutto incrocio tra Ronnie James e il Tony Martin di “Headless Cross”: peccato, perché la canzone in sé mi è piaciuta molto, grazie soprattutto alle melodie avvolgenti e cariche di atmosfera accennate dal solito Kenny, ma in più di un’occasione la voce di Goocher s’è intrufolata a spezzare l’incanto creato con tanta abilità dai colleghi. Per fortuna arriva “Knights” che mi aiuta a risollevare un po’ le quotazioni di Kevin con una canzone scritta su misura per lui, epica e battagliera, durante il cui ascolto fanno di nuovo capolino schegge dei vecchi Omen. La canzone, dopo un riff iniziale bello furioso, si trasforma in un fiero mid tempo, bilanciando egregiamente carica aggressiva da una parte e tasso epico dall’altra, consegnandomi una delle canzoni più convincenti dell’album. Avanti così.
“Hellas” continua sugli stessi binari, alzando i ritmi dopo un arpeggio iniziale molto contenuto: il gruppo sembra finalmente aver trovato le coordinate giuste lungo cui muoversi per tenere alta la qualità dell’album. La canzone scorre che è un piacere, complici come sempre le sapienti pennellate di Kenny e il buon lavoro al basso di Andy, e anche la voce di Kevin si destreggia bene per tutta la sua durata, cedendo solo nel francamente fiacco (ma stavolta non è colpa sua) ritornello.
Con “Caligula” si prosegue ancora sulla retta via, tornando a percepire profumo di vecchi tempi con una canzone che, nonostante dei suoni di batteria – diciamo così – non eccellenti, per tutta la sua durata alterna ottimamente passaggi più adrenalinici ad altri più solenni ed atmosferici. Arrivati a questo punto mi aspetto, con le ultime due tracce, la zampata che apponga il sigillo a questo lavoro tanto atteso, ma come sempre la legge di Murphy è dietro l’angolo, in agguato. “Era of Crisis” si rivela una traccia troppo ripetitiva e banalotta, carina ma nulla di eccezionale, penalizzata anche da un assolo secondo me un po’ troppo confuso per essere veramente efficace. Chiude questo settimo lavoro degli Omen “A.F.U.”, una lunga escursione strumentale che, a mio giudizio, non trasmette poi granché e, pur essendo dotata di un paio di momenti interessanti, finisce per essere ricordata come una serie di assoli piazzati uno accanto all’altro, una sbrodolata di note legate tra loro in qualche modo.
Com’è quindi questo “Hammer Damage”? Per descriverlo immaginerei una curva sinusoidale, che rende bene l’andamento (forse un po’ troppo) altalenante dell’album: a un inizio barcollante affianca una parte centrale molto più compatta e concentrata, con tre o quattro brani decisamente d’impatto, ma si conclude con un paio di tracce confuse e tutt’altro che memorabili. Dare un voto a un album come questo non è mai facile, in bilico tra aspettative non ricambiate e forse eccessive e l’accettazione di una proposta che deve tener conto del “lento sfacelo del tempo”, come diceva un tale: alla fine “Hammer Damage” una sufficienza abbondante se la porta anche a casa, ma considerato che stiamo parlando degli Omen una sufficienza, per quanto abbondante, è a mio modesto avviso un po’ pochino.