Recensione: Harbour of Tears

Di Riccardo Angelini - 8 Marzo 2006 - 0:00
Harbour of Tears
Band: Camel
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 1996
Nazione:
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93

In genere, i titoli più sovente associati al nome dei Camel sono quelli di dischi appartenenti agli anni settanta quali Mirage, The Snow Goose o Moonmadness, capolavori indiscussi destinati a essere ricordati come imperituri punti di riferimento del prog rock. Tuttavia, com’è noto, la carriera della band non si limita a quella sola decade, e si mostra ben disposta a offrire i propri frutti saporiti a quanti ne vogliano esplorare le ramificazioni successive.

Nel 1996 Andrew Latimer, ultimo superstite della formazione originale della band, decide dopo cinque anni di silenzio di riprendere in mano la penna e scrivere nuova musica. A guidarlo è un tema antico di centocinquant’anni, che affonda le sua radici in una delle pagine più nere della storia d’Irlanda.
Siamo nel 1845: una malattia ignota – un fungo, si scoprirà quando sarà ormai troppo tardi –  colpisce le piantagioni di patate di tutto il paese, privandolo della sua principale fonte di sostentamento. Non ci sono rimedi, la popolazione è inerme di fronte a quella che i posteri chiameranno “la grande carestia”: metà del raccolto è perduto, le famiglie più fortunate sono in rovina, alle altre non resta che una lenta morte per fame. Per scampare a una sorte che appare segnata, molti decidono di prendere la via mare e salpare in cerca di fortuna alla volta del nuovo continente. Per buona parte di costoro, l’ultimo sguardo alle terre natali sarà rivolto alle rive del porto di Còbh, culla di sogni e miraggi, di separazioni e addii –  il porto delle lacrime, Harbour of Tears.

Cobh Harbour is a beautiful deep-water port in Country Cork, Ireland. It was the last sight of Ireland for hundreds upon thousends of fractured families who departed her shores for fates unknown. They called it the Harbour of Tears

E’ questa una storia di speranze, disillusioni e sacrifici, la storia di un eroismo quotidiano e senza nome, che ha bisogno di poche parole per essere raccontata e che chiede solo un orecchio disposto ad ascoltarla. Al suo cospetto, ogni descrizione si fa piccola e timida, i termini tecnici appaiono goffi, inadeguati, le spiegazioni sempre insufficienti. Eppure qualcosa, almeno in questa sede, bisogna pur dire. E allora, con la consapevolezza non poter offrire molto più di un modesto quadro d’insieme e qualche sporadica pennellata di colore, volgiamo uno sguardo più approfondito all’opera di Latimer.

Recuperato lo spirito dei Camel che furono, Andrew lo soffia in una creatura in cui la raffinatezza del rock più sinfonico e il colore del folk d’Irlanda si mescolano sfumando l’una nell’altro, fino a confondersi in un’unica indiscernibile forma. Tocca invece alla moglie Susan Hoover scegliere le parole adatte alla musica. E dalla comune foce delle due fonti sgorga un nettere divino, che va bevuto lentamente, ma in un sol sorso, per poterne apprezzare il gusto segreto.
Si salpa dunque sulle note di un aria popolare cantata a cappella da un’incantevole Mae McKenna, seguita da una ripresa strumentale di grande teatralità, in cui orchestrazioni di gusto antico si affiancano alla passionale chitarra elettrica di Latimer, talora anticipandola, talaltra cedendole elegantemente il passo. Ed ecco subito la title track: un canto a due voci gonfio di dignità e rimpianti, il triste commiato tra padre e figlio, che si sublima in un coro struggente nella sua spontanea semplicità.

So fare thee well
Remember me…
Sail from the Harbour of Tears

America. E’ finito il tempo delle lacrime, è iniziato il tempo dei sacrifici e del sudore. Lavori umili, estenuanti e mal conpensati – una linea ferroviaia da costruire, biancheria e camicie da rammendare – bocconi amari da ingoiare senza sospiri, mentre sotto un tenue manto sinfonico si sviluppa a poco a poco un drumming regolare, discreto, che sostiene con gentilezza i soli delicati di una chitarra ansiosa di prender parola. Send Home the Slates e Watching the Bobbins: è qui che esce il lato più puramente rock dei Camel, interrotto soltanto da brevi intermezzi orchestrali.
Passano gli anni, e ancora lo sguardo si volge al passato, a evocare ricordi lontani miglia e miglia oltre l’oceano. Un brivido corre sotto la pelle mentre le note di Last Eyes of Irland afferrano dolcemente una mano giovane e ignara per accompagnarla indietro nel tempo, verso le terre natie: è un’ode dolorosa, di indicibile nostalgia, che spezza la voce e mozza il fiato in gola.

So carry your past
in the rooms of your heart
and you’ll never be empty
of love when you part

when you sail from the Harbour
it’s your last eyes of Ireland”

Così, di qui al termine, solo agli strumenti sarà concessa la parola, eccezion fatta per un ultimo, breve sussurro sulla malinconica End of the Day. In un tripudio di flauti e violini, il tempo corre dalla vivace Running from Paradise alla tempestosa Coming Of Age, infrange i recinti del rock e si spinge fino ai confini della musica classica senza mai perdere il suo unico, inconfondibile accento gaelico. Infine anche la musica si spegne, e a cullare la mente rapita, incantata, resta solo il flebile suono del mare, compagno senza tempo delle rive d’Irlanda, eterno custode delle sue lacrime antiche.

E’ la fine del viaggio, la fine della storia di Harbour of Tears. A chi volesse sapere come suona quest’album, si potrebbero portare tanti paragoni. Si potrebbe parlare della chitarra pinkfloydiana di Latimer, delle aperte sinfonie di scuola Genesis, o di quel gusto folk che ricorda un po’ i Jethro Tull del periodo Songs from the Woods. Ma forse non è questa la via migliore per chi volesse tentare di rievocare, almeno in parte, la traboccante potenza emotiva di questo capolavoro talvolta dimenticato. Non è qui che troverete ardite sperimentazioni compositive, o cervellotici virtuosismi strumentali, o astruse partiture da intenditori. Qui troverete i Camel di ieri e di oggi, qui troverete l’ottocento e il novecento, qui troverete il cuore dell’Irlanda e del mondo. Ascoltatene il battito e lasciatevi guidare.

Searching for fragments
of old yesterday,
I stand at the edge
of my childhood to find,
I long for the shadows
that danced at the end of the day…

 

Tracklist:
1. Irish Air (0:57)
2. Irish Air (instrumental Reprise) (1:57)
3. Harbour Of Tears (3:13)
4. Cobh (0:51)
5. Send Home The Slates (4:23)
6. Under The Moon (1:16)
7. Watching The Bobbins (7:14)
8. Generations (1:02)
9. Eyes Of Ireland (3:09)
10. Running From Paradise (5:21)
11. End Of The Day (2:29)
12. Coming Of Age (7:22)
13. The Hour Candle (A Song For My Father (23:00)

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