Recensione: Harmagedon

Di Roberto Gelmi - 3 Agosto 2014 - 13:50
Harmagedon
Band: Affector
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Genere:
Anno: 2012
Nazione:
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78

Due anni fa vedevano la luce March of Progress dei Threshold, il secondo capitolo targato Periphery, c’era il ritorno sulle scene dei Circus Maximus, dei Diablo Swing Orchestra e Luca Turilli pubblicava il primo album dopo l’uscita dai Rhapsody of Fire.
Il 2012 è stato, però, anche l’anno degli Affector, band progressive metal, che, dopo quattro anni di lavoro, dà alla luce il suo primo concept album per InsideOutMusic.
Tutto nasce dal sodalizio tra il batterista olandese Collin Leijenaar e il chitarrista tedesco Daniel Fries, incontratisi durante un tour della Neal Morse Band, dove milita Leijenaar.
Il songwriting inizia nel 2008, in seguito si assoldano due professionisti come Ted Leonard (Enchant, Spock’s Beard, Thought Chamber), in stato di grazia e finalmente valorizzato, e il redivivo Mike LePond (Symphony X, Lalu), vittorioso sul morbo di Crohn. Manca all’appello un tastierista, così i due mastermind pensano in grande e optano per avere come ospiti alcuni grandi nomi, come il mentore Neal Morse, Alex Argento, Derek Sherinian e Jordan Rudess.

Arriviamo in tempi recenti: il 2012 è vissuto soprattutto della profezia maya, pubblicizzata come non mai, in una temperie storica di nullezza totale. Il combo di Fries ci casca, ma lo fa aggrappandosi a testi biblici come l’Apocalisse (ma anche libri veterotestamentari, vangeli e lettere paoline) e riuscendo a mettere in musica i versetti della vulgata inglese. L’unica eccezione è la ballad “Cry Song”, dedicata al padre di Daniel (tributo che echeggia quanto fatto da John Petrucci in “Take Away My Pain” e Timo Tolkki in “Forever”, giusto per citare due chitarristi di rilievo).
Approccio sperimentale ai testi, dunque, ma nessun intento profetico-millenaristico muove la poetica degli Affector, così come i Dream Theater non vogliono inneggiare alla sicura immortalità dell’anima, quando riprorpongono in sede live il classico “The Spirit Carries On”.

Mixato e masterizzato a The Mouse House in Los Angeles da Rich Mouser (Spock’s Beard, Transatlantic, Neal Morse), Harmagedon si presenta con un layout attento ai dettagli, un logo alato e una copertina che ricorda quella di Visions degli Stratovarius.
Questo sono gli Affector, un gruppo che intende la propria musica non per esigenze commerciali e che ritrova nel proprio sound influenze musicali delle più varie, dal metal ai Queen, passando per il neo-prog. rock.

All’inizio del concept apocalittico è collocato un breve intro sinfonico da brividi, a opera della polacca Sinfonietta Consonus Orchestra, sulla falsa riga dei migliori Nightwish. Vengono presentati concisamente i temi che ritroveremo nell’album, da considerarsi, a detta della band, un’unica composizione lunga più di un’ora.
I primi minuti dell’overture si protraggono in una seconda parte strumentale prog. metal. Il guitarwork è sontuoso e virtuosistico, le parti di batteria sono portnonyane, con finezze a non finire: si palesa un grande feeling fin da subito. Al min. 3:31 un notevole unisono di tastiera e chitarra anticipa un brusco cambio di tempo e l’incupirsi delle ritmiche. Un avvio di disco invitante, con inserti acustici e un’inventiva inscritta nelle coordinate prog. più canoniche, ma non per questo priva di personalità.
L’overture termina con un fade-out di tastiera e tinte semiacustiche danno avvio a “Salvation”, con Ted Leonard nelle vesti di profeta. All’inizio del secondo minuto è presente un altro exploit strumentale orgastico (che sarà riproposto nel prosieguo del pezzo), poi si susseguono strofe accompagnate dagli octoban di Leijenaar e buone trovate chitarristiche. Il brano ha un minutaggio medio-lungo, con cambi di tempo, generose parti strumentali e doppia cassa metal. Il break a metà del pezzo schiude atmosfere eteree, con synth ariosi e linee di basso avvolgenti: tutto dura pochi istanti, poi ritorna un riffing roccioso, con hammond in sfondo e un assolo petrucciano. Il finale è in crescendo, con incluso ammicco barocco, fuori luogo se non fosse per la sua funzione di raccordo con il finale del disco. In sintesi, una composizione ambiziosa con continue accelerazioni e schiarite che valorizzano l’ugola calda di Leonard su registri intrisi di pathos. L’identità sonora degli Affector sarà riproposta identica e coerente nel resto del full-length.
The Rapture” presenta un incipit da “rapimento” puro, con buon groove e scale a iosa. Dopo due minuti pirotecnici, il brano prosegue in modo prevedibile, ma con improvvisi lampi di follia (min. 3:20). La suite vede anche la presenza di Jordan Rudess, che al sesto e all’undicesimo minuto regala assoli di pura maestria e perizia. I testi apocalittici, inneggianti l’auspicata fusione nella gioia dell’aldilà con Dio, sembrano tratti da un album di Neal Morse, ma irrobustiti da un approccio più heavy. Alla fine del nono minuto spiccano attimi à la Thought Chamber e ritmi tribali, poi un riffone da Train of Thought, con la MusicMan di Fries imbizzarrita. Al dodicesimo minuto la parte strumentale si fa molto sincopata e coinvolgente e Leijenaar furoreggia con un drumwork spietato.
La mastodontica composizione si chiude come per magia e inizia in 5/4 “Cry Song”, ballad già citata, con la presenza del vate Neal Morse alle tastiere. L’immancabile assolo di chitarra punta troppo sulla tecnica, vanno meglio le parti acustiche. Nel finale il redivivo LePond incanta e il brano termina fluttuante su toni elegiaci.
Siamo in un album prog. metal, non lo dimentichiamo, così i ritmi tornano a schizzare a mille con “Falling Away & The Rise of the Beast”: i primi venti secondi sono di puro delirio strumentale con legati allucinanti! Ritroviamo Morse alla tastiera, ma anche Sherinian, con il suo stile inconfondibile. Curioso l’amalgama che si crea con due ospiti così dissimili presenti in uno stesso brano: il sound corposo degli olandesi ingloba sapientemente lo stile dei due tastieristi, i quali, con i loro assoli, riescono ad arginare una certa monotonia che purtroppo fatica a passare inosservata.
La title-track è la seconda suite in scaletta. L’ascoltatore è già stremato, ma lo aspetta un ottimo brano, con un intro epico e heavy. Le parti di batteria seguono più che mai il dettato di Mike Portnoy e la prova di Rudess è più indiavolata e incisiva che con  la sua band madre. Dopo il momento bluesy verso il sesto minuto, ritorna la breve frase barocca in calce a “Salvation”. Quando, nel finale, i ritmi si fanno più dilatati, la chitarra solista in sweep-picking arriva su vette ardite, ma non riesce a uguagliare il tocco di Petrucci.
La suite termina con note di Rudess, ma il vino migliore (come da tradizione messianica) è lasciato per ultimo: “New Jerusalem” è il brano migliore del lotto, con un main-theme che ricorda quello di “Home” dei Dream Theater, con tanto di wah-wah caratterizzante. Alex Argento è degno comprimario di Fries, mentre Leonard fa da padrone su linee vocali ariose a lui congeniali. Ci sta pure la ripetitività in un crescendo catartico, che lascia spazio a un assolo di Argento, per poi lasciar spazio agli ultimi trenta secondi sinfonici.
Per chi non fosse ancor sazio, nelle versioni limitate del disco figurano le versioni acustiche e editate di “Harmagedon” e “New Jerusalem”, niente d’imprescindibile.

Il progetto guidato dalla coppia Leijenaar-Fries a oggi non ha avuto un secondo capitolo; di certo Harmagedon ha lasciato un’impronta nel panorama prog. ed è stato ben accolto dai fan più ortodossi del genere. Non mancano, infatti, momenti imperiosi e altri intimisti, in un eclettismo che, però, alla lunga risulta troppo carico e ridondante. Nello specifico, la prova di Fries, pur entusiasta, pecca a tratti di scarsa ispirazione, aspetto non di buon auspicio per una band al primo studio album in carriera.
Solo il futuro saprà dirci se gli Affector sono stati una meteora, oppure sapranno regalare altra buona, anzi, migliore musica di quanto già fatto. Le potenzialità ci sono tutte, basta osare un po’ di più.
 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

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