Recensione: Harness the Sun
Terzo album sulla lunga distanza per i genovesi No Man Eyes. La band, fondata nel 2011, si è resa protagonista sin qui di un percorso musicale salpato da lidi estremi, affinati sino a giungere con “Harness the Sun”, ad un interessante ibrido in cui coagulare thrash, modern metal e qualche spunto idealmente progressivo.
L’esperienza e la qualità non mancano. Le trame musicali del quartetto assumono spesso tonalità fascinose e riflessive cui si accostano improvvise sfuriate chitarristiche unite a ritmiche serrate.
Per i fautori dei paragoni a tutti i costi, un’indicazione pertinente potrebbe chiamare in causa i Communic – gruppo che nel tempo ha raccolto meno di quanto meritato – e i mai abbastanza lodati Nevermore.
Proprio da questi ultimi i No Man Eyes sembrano mutuare una certa attrazione per le strutture dei brani. Nervosi, multiformi, dotati di un dinamismo eclettico che pur senza raggiungerne le vette ha parecchi punti in comune con la leggendaria band di Seattle.
Ovviamente complicato reperire su “Harness the Sun” pezzi paragonabili a “Evolution 169“, “Narcosynthesis” o “The River Dragon Has Come”, tuttavia va dato atto ai quattro genovesi di provarci a fondo. E con discreti risultati.
Inteso come un elaborato concept futuristico – un coraggioso scienziato, accompagnato da un droide, si reca verso il sole per imbrigliarne l’energia, scoprendolo poi abitato da un’entità onnisciente e millenaria – il nuovo album dei No Man Eyes non è tuttavia materiale che possa essere indicato per un ascolto superficiale e disattento.
Piuttosto stratificato, denso ricco di particolari, il disco necessita d’essere metabolizzato con calma. Un aspetto che in tempi usa e getta come quelli attuali rischia addirittura di rappresentare un limite alla sua piena fruizione.
Ritmi serratissimi, ritornelli estremamente melodici, quasi power. Thrash dai tratti cupi che davvero potrebbe ricordare qualcosa di “Dead Heart in a Dead World”. Trovate progressive, voce pulita e atmosfere drammatiche. Il tutto unito a grande tecnica strumentale.
Un bel calderone di spunti variegati in cui è facile perdersi se sprovvisti di un minimo di pazienza utile a far sedimentare le idee che il singer Fabio Carmotti, insieme alla sua band, hanno tentato di tradurre nei brani di questo terzo capitolo discografico.
“Craving Tomorrow”, “I’m Alive“, “Viracocha” (il nome dell’entità solare), “Son of a Man” sono pezzi che, evidentemente, non nascono per caso e denotano una notevole abilità nel comporre ed immaginare trame tutt’altro che banali.
Insomma c’è parecchio di buono in quanto realizzato dai No Man Eyes, band che dimostra una costante evoluzione e sembra puntare – come i protagonisti della storia – alla conquista del sole.
Il rischio di perdersi nell’infinito mare di stelle che si frappongono è tuttavia concreto.
Ma, dopo tutto, perché non provarci…
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