Recensione: Harnessing Ruin
Gruppo fondamentale, gli Immolation: una di quelle band inossidabili,
impermeabili alle vicende personali e ai trend del momento, che sanno continuare
lentamente ma con decisione un cammino, senza alcun tentennamento. E così, dopo
le varie vicende che li hanno coinvolti negli anni e rivolgimenti di line-up (da
ultimo il cambio del batterista), grazie al supporto della francese Listenable
Records riescono ormai da Unholy Cult (2002) ad assicurarsi una certa
stabilità, e soprattutto a pubblicare materiale imperdibile.
Questo Harnessing Ruin non fa eccezione: pur senza un grosso
battage pubblicitario né clamore delle folle il disco si impone da sè per la
qualità espressa, indice di uno stato di salute non indifferente che permette
al combo americano di dare vita a 9 brani tra i migliori della propria carriera,
assolutamente imperdibili per tutti gli amanti del death metal più classico.
Sono ormai lontani i tempi di Dawn of Possession, ma lo stile non è poi
cambiato radicalmente, anzi: è ovviamente maturato, arricchendosi di
particolari e arrangiamenti di classe, con gli assoli di Bob Vigna che
non si incastrano forzatamente nella struttura dei pezzi, ma reggono
organicamente le composizioni e si dimostrano capaci di una melodia riflessiva,
mai caotici e convulsi. Non possono che essere le chitarre, del resto, le
protagoniste di un album affezionato al passato senza esserne prigioniero: parti
arpeggiate emergono qua e là tra i potenti riff del gruppo, a sorreggere
perfettamente il growl tipico di Ross Dolan, la cui influenza “Dave
Vincent” si è stemperata negli anni a favore di un timbro ormai ben
riconoscibile; e come non attibuire un elogio al nuovo drummer, quello Steve
Shalaty che si rende protagonista di una performance variegata e personale,
senza saturare i pezzi ma reggendoli in modo preciso e deciso.
Al di là della disamina tecnica, un disco come Harnessing Ruin colpisce
al cuore i fans del genere con una serie di pezzi sinceramente emozionanti, mai
scontati nè piatti come a volte in passato era accaduto: su tutti la splendida
title-track, difficile tenere ferma la testa ascoltandola; ma tutta la tracklist
è degna di nota, con brani d’impatto (Swarm of terror, Crown the liar)
uniti ad altri più cupi e imponenti, come la ottima Our saviour sleeps.
Il gruppo ha deciso di concentrarsi su tematiche di attualità più che su
quelle (per loro tipiche) di ambito religioso, e sia il cover artwork (per una
volta non realizzato da Andreas Marschall) che gli arrangiamenti si adattano a
questa decisione, con un suono battagliero e non per forza digitalizzato: solo
pulito quanto è giusto che sia.
Per una volta, nel mare magnum delle uscite death contemporanee potete andare
a colpo sicuro: gli Immolation non deludono e realizzano uno dei pilastri
dell’anno in corso.
Alberto “Hellbound” Fittarelli
Tracklist:
1. Swarm of Terror
2. Our Savior Sleeps
3. Challenge the Storm
4. Harnessing Ruin
5. Dead to Me
6. Son of Iniquity
7. My Own Enemy
8. Crown the Liar
9. At Mourning’s Twilight