Recensione: Hateful 10
Ci siamo! Dopo un’avventura iniziata nel 2013, i Tornado Kid hanno prodotto ben tre EP e sono stati a spasso per il mondo a supportare band del calibro di Protest the Hero, Airbourne e Our Last Night, partecipando a diversi festival tra cui il “Ranki Rock” finlandese, dove sono stati headliner. Dopo tanta gavetta i Nostri giungono finalmente al debut album, intitolato “Hateful 10”. I Tornado Kid arrivano dalla Russia, da San Pietroburgo per l’esattezza, ma di russo non hanno nemmeno i nomi, visto che i loro nickname sono tutt’altro che russi. Già dal titolo iniziale dell’album “Cowboys of the North”, cambiato all’ultimo momento, i riferimenti della band ci risultano ben chiari. E, dunque, siamo proiettati in un ambiente southern, duro, crudo e sanguigno. Possiamo provare a definirli con l’etichetta Cowboy Southern Punk Hardcore Metal. Questi elementi sono stati, peraltro, evidenziati dagli stessi membri della band che, a proposito del titolo dell’album, ci dicono:
“Hateful 10” fuma come una sigaretta dopo una scopata, ha il sapore del whiskey durante il proibizionismo, ha il suono di uno sparo proveniente da una pistola arrugginita raccolta dal corpo di uno sceriffo morto.
C’è poco altro da aggiungere: la grinta, le idee chiare e la voglia di fare di certo non mancano al quintetto di cowboy slavi. Se a ciò si aggiunge uno stile scanzonato, all’insegna del divertimento, ecco che il risultato è notevole, sebbene leggermente artificioso; d’altronde, uno stile così leggero, laddove non coincide con il proprio naturale modo di esprimersi, sembra quasi una forzatura stilistica. Ma di questo parleremo più avanti. Ora tuffiamoci nelle note di questo “Hateful 10”.
Con il loro primo brano, “Whiskey Beer Anthem”, veniamo trasportati direttamente nelle lande texane, con le note di un classico southern metal simile alle tipiche sonorità dei Kyuss. Già con la successiva Silver Or Lead si cambia registro e le sonorità si spostano su un Punk Metal ad alto tasso etilico, se vogliamo, per un risultato finale che sembra un mix tra lo spirito degli Alestorm e i ritornelli tipici dei Linkin Park. Il successivo brano, “Killer Song”, è diretto, duro e puro; un Punk Metal “cazzuto” e incazzato, tra le tracce più pesanti dell’intero lavoro. Con “Rough and Tumble” ci imbattiamo nella canzone più riuscita dell’intero album in cui tutto sembra al posto giusto: il riff azzeccato, le percussioni che macinano come un tritacarne e una voce che mai è stata più appropriata; insomma, un gran bel concentrato esplosivo in appena tre minuti scarsi. Dopo tanta sana violenza, ci immergiamo in sonorità più pacate con “Whorehouse” classico pezzo Hard Rock con tutti gli elementi che ne conseguono: buon riff, ottimi tempi e l’immancabile assolo di chitarra, che finalmente arriva dopo cinque brani orfani di qualsivoglia sterzata sulle sei corde. “Hunger” crea una certa continuità con il brano precedente, aggiungendo giusto un po’ di southern e del punk. “The Many Faces Of Psycopath”, sebbene pecchi in mancanza di originalità, aggiunge, tuttavia, qualche passaggio che spezza i ritmi, donando un po’ di freschezza all’intera opera. Nelle tracce finali dell’album, i Nostri propongono sonorità leggermente diverse, cercando di dare un po’ di varietà alla loro proposta. E, difatti, in “Old World Blues”, ci troviamo davanti ad un tempo medio ben strutturato e maturo nella sua composizione, anche se la canzone suona spenta, priva di enfasi. Con “The Wolves” i ritmi e i toni si rialzano, tornando al tipico e incalzante Punk Metal targato Tornado Kid. L’ultimo brano, ”Retired Cowboy”, non aggiunge molto rispetto a quanto visto nelle tracce precedenti: sebbene cerchi di risultare diversa, non ci riesce del tutto, nonostante l’apprezzabile tentativo. I cori da stadio e i riff risultano già sentiti e risentiti, relegando, purtroppo, nella mediocrità un brano partito da premesse più che buone. Da segnalare, però, l’ottimo assolo a metà brano (e siamo a due assoli in tutto l’album!).
Come già anticipato, il cocktail di sonorità proposto da nostri cowboy è efficace, sebbene l’apparenza superi di gran lunga la sostanza; ciò è dovuto essenzialmente alla scelta di mischiare sonorità differenti. Il risultato è un sound artefatto, che è proprio l’esatto contrario della spontaneità, del divertimento e dell’essere spiriti liberi, tutti concetti da cui la band dice di voler trarre ispirazione. Da un punto di vista tecnico nulla da rimproverare: ci troviamo davanti a brani ben eseguiti, musicisti più che validi e una buona produzione. In considerazione del fatto che l’album è autoprodotto, faccio davvero i miei complimenti. A chi piace il mix musicale e la grinta di una band fresca, che ci crede davvero e ha voglia di fare, portando un progetto di identità ben definito, consiglio vivamente l’ascolto di questo “Hateful 10”. Molto probabilmente sentiremo parlare ancora di questa formazione russa, sopratutto se riuscirà a limare qualche difetto di ingenuità e ad amalgamare meglio il sound, rendendolo più autentico e vero. Sono sulla strada giusta, manca solamente qualcosina per poter definire la loro musica originale e unica. In attesa del loro album successivo, godiamoci questi “Cowboy of the North” con un bel bicchiere di whiskey e una bella sigaretta fumante. Let’s Rock!
Vladimir Sajin