Recensione: Haven
Qualcosa non ha funzionato. Pandemonium (la capitale dell’inferno di Milton) che dava il nome al tour è diventato all’improvviso un monito ad avvisarci che il cielo si stava oscurando e le luci, stavolta, si sarebbero abbassate in modo irreversibile. Avrei dovuto essere più cauto, qualcuno, da qualche parte, ci osservava. Per un attimo la terra aveva oscillato nervosa. Roy non c’era più e la sua voce era parte inscidible della nostra musica. Ora cosa fare? Mai avrei pensato di spingermi così lontano. Quali forze lo hanno strappato via dal nostro presente? Forse schegge di destino impazzite… però sarebbe stato troppo presto per smettere e vanificare tutto quello per cui avevo combattuto. Beffardo il destino.
Nel 2011 i Kamelot perdono Roy Khan (lascia per motivi di salute) la cui voce ha incantato folle di metallari adoranti e consapevoli ormai era del fatto che fosse uno di quelli predestinati al gotha ove regnano sovrani gli antichi dei del power metal (tra gli altri mortali ci potete trovare Kiske, Kotipelto, etc…). Il sostituto scelto nella moltitudine è Tommy Karevik, uno che per sembianze potrebbe fare la controfigura di Roy, se poi nei concerti si veste e muove allo stessa stregua l’operazione deja-vu è completa. In ogni caso Tommy non è un novellino, la sua voce splendeva nei Seventh Wonder e quel timbro pulito, ma ricco di bellissime sfumature pare davvero diverso dalla voce che aveva reso grandi album come Black Halo, Epica, Karma e The Fourth Legacy (tra i miei preferiti, ma altri andrebbero elencati tra i migliori). I Kamelot rispondono nel 2012 ai miei dubbi con Silverthorn, ma non riescono a dissiparli del tutto. La voce ripercorre sentieri già battuti faticando a trovare una propria via, invece i riff stentanto. A tre anni di distanza, confermando la precendente line-up, i Kamelot tornano con un album intitolato “Haven” e il mondo con il fiato sospeso attende di essere sorpreso.
Non ci raccontano una storia. Però i brani sono percorsi trasversalmente dal tema dell’incomunicabilità ai nostri tempi, quelli della grande rete sociale. Quindi perchè Haven? La definizione si riferibbe ad un approdo protetto dal mare, ma in realtà è la musica del gruppo americano a cui viene affidato il compito di isolare l’ascoltatore e difenderlo dall’esterno. Così non rimane che addentrarci nel nuovo album dei Kamelot e il loro approdo salvifico.
La voce di Karevik si muove pulita su note di piano per poi lasciare spazio a riff sinfonici oscuri ed eleganti. Ci ritroviamo già immersi nella prima traccia intolata “Fallen Star” e quella stella in fondo sembra non voler mai cadere, fluttuando nelle elengati e oscure melodie disegnate dalla chitarra di Thomas Youngblood che trovano perfetta corrispondenza nella voce. Che fine ha fatto il fantasma? Se ne è andato? Non del tutto Tommy, infatti ha uno spettro vocale che certamente lo limita nelle passegiate ad bassa quota, diversamente è bravo a compensare con una voce rabbiosa che irradia energia ed allo stesso però vi sono riscontrabili alcune somiglianze e chiari rimandi al predecessore.
La seconda traccia intitolata “Insomnia” (anche secondo singolo) pare animarsi in suoni sintetizzati mentre la batteria di Casey Grillo detta i tempi ossessivamente e il basso di Sean Tibbets irradia energia pulsante (a dire il vero il basso nel resto dei brani è decisamente meno presente). La musica diviene partitura sinfonica riletta in un heavy ossessivo contrapposto a una melodia dolce e ambigua. Segue “Citizen Zero” dai toni teatrali e di un’oscurità claustrofobica celebrata da tastiere distorte di Oliver Palotai, riff ossesivi e cori feminili in eco. Il quarto brano intitolato “Veil of Elysium” è anche il singolone destinato a scaldare le folle con il suo ritornello griffato Kamelot, una sorta rivisitazione del passato. In ogni caso l’ennesima l’illusione riesce anche grazie a Karevik che si batte come un leone su partiture distanti forse dalla sua naturale predisposizione, riuscendole a interpretare con misura ed elenganza. Tempo di rallentare in note celtiche, disegnate dalla cornamusa di Troy Donockley (Nightwish) per danzare con leggiadria nel brano “Under Grey Skyes” che vede la partecipazione di Charlotte Wessels (in forza ai Delain) a duettare in un mood malinconico con Tommy. La coppia centra il bersaglio e la melodia riesce a espandersi frantumando gli immoti cieli del power metal. La sesta traccia dall’esplicito titolo “My Therapy” è mossa da note teatralmente ossessive ed echi stantii del passato riecheggiano alla mente.
Qundi “Ecclesia” è breve intermezzo scenico dove risuona una voce deframmentata su un tappeto di cori femminili eterei. Segue di “End of Innocence” che è leggibile sin dal primo ascolto grazie ad un melodia elegante, ma allo stesso tempo carica di energia. La voce pur non salendo oltre la stratosfera, trova la sua forma in un interpretazione trascinante che riesce a tenere testa alle sinfonie quasi industrial (forse ho esagerato un po’) del gruppo americano.
Il nono brano intitolato “Beautiful Apocalypse” è di nuovo dicotomia tra vocalizzi improntati ad una melodia teatrale e le distorsioni altisonanti delle chitarre. Diversamente “Liar Liar (Wasteland Monarchy)” è un ritorno ad un power metal più vicino agli standard del passato del gruppo americano e a mio modo di vedere uno dei brani più riusciti. Le chitarre si muovono veloci mentre la voce si muove tra dramma tetatrale e rabbia carica di energia che esplode nel ritornello. L’udicesimo brano è un lento intitolato “Here’s to fall” che diviene sinfonia per piano e violini. La voce incede epica e teatralmente oscura in una melodia di facile assimilazione.
Prima che la chiusura dell’album venga affidata ad uno strumentale intitolato “Haven” c’è ancora spazio per la traccia intitolata “Revolution” che vede la partecipazione della voce growl di Alissa White-Gluz (dal 2014 negli Arch Enemy) a spingere i Kamelot ad una veloce incursione in un Black Metal dai tempi veloci, ma è solo una breve variazione, perché il brano si muove a strappi tra soluzioni classiche e passaggi più moderni.
Va bene, ma tutta questa poesia per poi dirci… ti ha convinto? Allora dillo che è tutta colpa di Karevik! Già Haven non mi ha convinto del tutto e non perché sia brutto, ma perché manca di profondità, infatti determinate soluzioni melodiche diventano esercizio stilistico fine a sé stesso se non sostenute da partiture ispirate e da una produzione dei suoni troppo improntata ad esaltare un muro di chitarre modernamente distorte.
I brani si muovono tra riff pesanti e arraggiamenti sinfonici che si esauriscono in ritornelli dalle melodie accativanti, ma alla lunga stucchevoli (per fare dei nomi: “Citizen Zero”, “My Therapy”, “Beautiful Apocalypse” e “End of Innocence”). Karevik non riesce ancora a mettere quasi mai in mostra la sua notevole estensione, risentendo di arrangiamenti forse troppo moderni e di alcuni passaggi in cui riecheggia il non imitabile passato. Il nuovo album sembra dirci che un’altra via per i Kamelot è possibile, ma a mio modo di vedere necessita ancora alcune correzioni, malgrado il loro ultimo album sia un deciso passo avanti rispetto a “Silverthorn”. In ogni caso Haven è un buon disco e contiene brani decisamente validi tra i quali citerei “Fallen Star”, “Liar Liar (Wasteland Monarchy)”, “Veil of Elysium” e “Under Grey Skyes”, ma ci troviamo al cospetto di un’ opera minore del gruppo americano.