Recensione: Haze Of Nemesis
In copertina è centrale la figura di un angelo alato la cui luce dorata squarcia l’oscurità di una città abbandonata, divenuta qui sfondo premonitore di desolazione e primordiali paure.
E’ probabile che la raffigurazione di quell’angelo sia Nemesi, in riferimento al titolo dell’album, la dea che secondo la mitologia ellenica poneva riparo ai torti, alle ingiustizie e ai delitti irrisolti. Nel tempo il significato della parola stessa ha assunto diverse connotazioni a secondo dei costumi e del contesto; in un’accezione più ampia può essere letta come l’esito di un fato avverso a cui non possiamo opporci.
Markus Teske, la mente creativa dei Red Circuit, nonché produttore e tastierista (annovera tra le sue collaborazioni gruppi del calibro di Symphony X, Vanden Plas, Neal Morse e altri) mette in scena il lato oscuro della Nemesi “Haze of Nemesis” quale espediente per raccontarci di destini funesti riletti secondo le propria esperienza personale.
I tedeschi Red Circuit esordivano nel 2006 con l’album “Trance State”. Il primo disco definiva da subito il suono del quintetto, che strutturava le canzoni in riff metal rocciosi innestati in trame sinfoniche di stampo classico, a loro volta incupite da suoni più moderni. Nel 2009 usciva il secondo cd “Homeland” e solo cinque anni ecco il loro lavoro più ambizioso, “Haze of Nemesis”, che pur seguendo le coordinate stilistiche di sempre, si arricchisce di molteplici influenze.
Irrompe la prima traccia intitolata “Oceans Apart” ed il suo incedere sinfonico a danzare sulla melodia del pezzo. Poi riff e batteria a ricordarci che è tempo di accelerare verso l’oscurità e nel viaggio ci accompagna la voce profonda, al limite del gutturale, di Chity Somapala (ex. Avalon, FireWind). Il ritornello ci lascia incantanti, ora la voce più pulita illumina la melodia che rimanda ai Kamelot e l’influenza del gruppo americano tornerà a farsi sentire soprattutto nella seconda traccia “My Lonely Heaven”, ancora un ritornello di grande impatto a squarciare il muro di suono distorto, quasi stridente, delle chitarre.
Malgrado vi sia un’ affinità in alcuni passaggi con i Kamelot, i Red Circuit sono anche altro.
Il quintetto tedesco riesce ad attingere dal rock, dalla musica progressiva e in certi passaggi sembra evocare il mood più moderno alla Rob Zombie per restituirci un pezzo come “Digging in the dirt” che sintetizza in maniera elegante la bravura compositiva di Markus Teske.
Nella quinta traccia “My world Collide” troviamo un ospite di eccezione, Amanda Sommerville – nota anche per la collaborazione con Tobias Sammet degli Avantasia – a dialogare con Somapala. Introdotte dal piano, le due voci si alternano tra soli e sovrapposizioni su di un tappeto di archi e piano per creare una composizione equilibrata e di grande intensità.
“Haze of Nemesis”, la title track, si segnala per un incedere epico, esaltato dalle melodie dei cori e cadenzato allo stesso tempo da chitarre distorte e orchestrazioni.
In “My Serenade” ci ritroviamo a risalire lungo una composizione lunga quasi dieci minuti, suddivisa idealmente in tre momenti, con una parte centrale strumentale ed evocativa a fare da ponte verso il finale, in cui cori ancestrali riprendono la melodia ben intonata dalla voce di Somapala. Necessita certamente qualche ascolto per poter essere apprezzata appieno.
L’epilogo è affidato a “Soldier of Fortune”, dei Deep Purple, cover che diventa tributo ad una delle maggiori influenze del gruppo.
La canzone è un lento meditato e struggente in cui la voce di Somapala ripercorre i vocalizzi che furono di Coverdale, impresa improba certo, tuttavia l’esito è buono, anche grazie al sostegno dell’ottimo chitarrista Chris Moser che ben sviluppa sia gli arrangiamenti che gli assolo in ogni traccia del disco.
Oltre alle undici tracce del cd è possibile rivedere l’esibizione del gruppo che si svolse ad Atlanta negli USA nel 2011 al Prog Power Festival grazie al dvd distribuito in allegato.
I Red Circuit riescono quasi sempre a creare musica coinvolgente e con soluzioni che attingono ad un repertorio i cui confini si estendono oltre il metal più classico. Allo stesso tempo però non tradiscono mai l’idea che abbiamo di heavy metal: il canovaccio è salvo grazie a riff distorti e ad un’attitudine intransigente che ci consegna un buon disco, suonato con grande intensità e bravura.