Recensione: Headcult

Di Daniele Balestrieri - 19 Settembre 2005 - 0:00
Headcult
Band: Morrigan
Etichetta:
Genere:
Anno: 2005
Nazione:
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71

La Germania, è risaputo, è una di quelle nazioni che non rimangono mai a guardare: da sola manipola quasi la metà del mercato metal europeo, tra le sue braccia scorrono immensi fiumi musicali, e lì germinano e palpitano interi movimenti che da altre parti faticano a rimanere in piedi. Non è un caso che sia metro di paragone per la quasi totalità delle band mainstream europee, e non è un caso che da lì nascano alcuni tra i progetti più interessanti praticamente in ogni ambito, a patto che siano fruibili e non incredibilmente di nicchia. Così, dopo la bellezza di tredici anni, due album e un cambio di identità, il duo ora chiamato Morrigan sfodera con orgoglio il proprio Headcult, gettato in pasto alle folle nella rovente estate del 2005 e già pronto a dare un’identità a questi Balor e Beliar tanto dediti a quell’epic scandinavo stordente di fine anni ottanta.

La predilizione per questo genere già si poteva percepire con il loro precedente “Celts”, ma questa volta il duo si libera da ogni inibizione e scolpisce a chiare lettere il nome simbolo della propria devozione assoluta: BATHORY.
Headcult è una esplosione di epica bathoriana portata a estremi quasi patologici, un gorgo assassino di sonorità uscite direttamente da Hammerheart, da Twilight of the Gods e da tracce di Under the Sign of the Black Mark. L’ascolto di questi 65 minuti di gesta belliche è tanto emozionante quanto imbarazzante, nella misura in cui un fan di Quorthon si ritroverà a osservare l’ombra del grande maestro allungarsi dalle casse dello stereo fino all’indistinta lontananza, e sono certo che nel suo propagarsi l’ombra annuirà soddisfatta – poiché Headcult è un esperimento riuscitissimo, un omaggio tanto lapalissiamo quanto intimamente personale.

Proprio tale genesi è implicitamente il limite più grande che obnubila quest’album: chi disprezza Bathory, specialmente nel suo periodo più ispirato della seconda metà degli anni ottanta, si tenga a un palo di distanza da Headcult, perché ricalca le stesse impronte pur differenziandosi – o meglio, circoscrivendosi – in più di una istanza.
Raccontarne l’arte, per i non avvezzi al bathorismo, è tutto sommato abbastanza semplice. Headcult consta di nove titaniche tracce, ognuna compresa tra gli otto e gli oltre dieci minuti, di epic viking metal assolutamente monocorde, con un cantato sparso ed etereo che sembra uscito direttamente da One Rode to Asa Bay, ovvero una specie di screaming disarticolato non particolarmente spinto. Le tracce incalzano senza variazioni degne di nota l’una di seguito all’altra, ripetendo con un’ossessione quasi clinica lo stesso genere di riff, un riff crudo, tirato, teso e martellante supportato da una batteria visibile ed equilibrata che più di una volta – perdòno – mi ha riportato alla mente il riff principale di “Sign of the Hammer” dei Manowar per quanto concerne le fattezze e la pedissequità, anche se le similitudini si limitano unicamente a quest’aspetto. Imponente matrice di tutto il lavoro sono gli onnipresenti cori, che con continuità monumentale si snodano per decine di minuti senza dare respiro, come un tuono continuo durante un temporale autunnale. Sono proprio questi cori a dare modulazione e corpo a canzoni altrimenti caratterizzate da riff semplici ripetuti in maniera talmente ossessionante che al confronto la ripetitiva e affascinante Summer’s End degli Amorphis si raggrinzisce e muore svuotata delle sue reali dimensioni.

È in realtà tutto qui: Headcult è un’immensa canzone ricca di collegamenti, che al proprio interno ha degli stacchi molto felici come i crescendo della title track, le velocità quasi thrash che esplodono nelle assordanti botte epiche di “Where Rainbows End“, o ancora la pioggia di frecce che apre la conclusiva “Spell of the Mountain King“.
La cosa stupefacente è che laddove alcuni tratti melodici si allontanano dalla lezione dei Bathory, il paragone più pregnante che viene in mente è proprio quello di Album, il primo album solista di Quorthon, che ispira alcuni tratti quasi heavy della titletrack “Headcult” che sembra uscire direttamente da canzoni come “no more and never again” o “Boy”. Insomma, questi Morrigan sono decisamente grandi conoscitori della tradizione Bathoryana, e sono stati in grado di metterla a frutto senza particolari velleità di plagio, ma al contrario facendola propria e tutto sommato creando un lavoro complementare, più che sostitutivo.
Headcult è un disco da ascoltare tutto d’un fiato, e da godere nella sua totale interezza; un disco dal sapore antico (complice anche la registrazione imperfetta e “distante”) e dalle atmosfere rarefatte e dimenticate, un plauso al lavoro d’insieme più che alle singole competenze di ogni membro. È uno di quei classici album sicuramente lunghi, ma che potrebbero essere lunghi anche dieci volte tanto senza stancare mai chi è devoto a un certo tipo di sonorità dannatamente epiche a cavallo tra il celta e il vichingo, tra l’epic folk e il pagan più esasperato.

Ormai la sostanza è chiara, attenzione dunque ai gusti del singolo ascoltatore: questo è un disco che farà centro pieno per chi riconosce in questo stile i propri gusti (e aggiungete quindi una ventina di punti al voto finale) e sarà probabilmente inconsistente per molti altri. Il giudizio finale batte nei cuori più pagani e intransigenti.

TRACKLIST:

01. Morrigans Flight Over Celtic Lands
02. Crom Cruach
03. Where Rainbows End
04. Bloody, Blue Faces
05. They Can’t Tame The Devil
06. Headcult
07. Talisain
08. Beyond The Convent
09. Spell Of The Mountain King

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