Recensione: Heartless
I Pallbearer, un nome che a qualcuno non dirà nulla, ma che nel doom contemporaneo sta piano piano aumentando il consenso e il bacino di pubblico. Cosa hanno di speciale questi ragazzi a dispetto degli altri? Mistero. Il terzo disco, quel numero fatidico che tradizione vuole porti al successo definitivo, alla consacrazione o alla caduta di stile. “Heartless” non ha nessuna delle due, se analizzato e ascoltato con attenzione e cura delle parti, non ha quel colpo di genio che tutti si potevano aspettare e non ha portato ad una rivisitazione/rivoluzione che poteva essere pronosticata. Potremmo, molto semplicemente, definire questo terzo parto quale conferma di come entrare sotto le ali protettrici di una major a volte confonda la mente.
Ad un primo ascolto ammetto di essere rimasto alquanto spiazzato, visti i responsi e le disamine lungo la rete. Credevo di avere di fronte un capolavoro che gocciolasse creatività e genio da ogni poro, ahimè non è tutto oro ciò che luccica. Come spesso accade nel mercato, oggi ci si accontenta di poco, commuovendosi per un finto miracolo osannato dai più. I Pallbearer sono indubbiamente ottimi musicisti, il loro tocco è rimasto immacolato e forgiato sulle stesse coordinate sia di “Sorrow and Extinction” che di “Foundations of Burden”, ma con un’ariosa ventata di positività, una verve meno cupa e più “celestiale” che ha pervaso l’intero lavoro. “Heartless” propone sei canzoni pressochè monolitiche, lente e a tratti colme di staticità stilistica, che diventa il vero fardello da sorpassare prima di riuscire ad apprezzare a pieni polmoni il risultato per intero. Le prime due ‘I Saw the End‘ e ‘Thorns‘ sono il tappetto rosso per entrare in pieno contatto con il nuovo mondo della band, due canzoni che non lasciano gridare al miracolo, senza quel tocco di genio che galleggia dietro l’angolo silenzioso. Probabilmente il cantato non facilita l’assimilazione, non riuscendo mai ad esplodere doverosamente anche attraverso una produzione leggermente piatta e fin troppo pulita. Certamente le linee stilistiche scelte e le melodie applicate sono splendide da ascoltare, ma non decollano mai. Bisogna aspettare la terza traccia per avere un vero sussulto. ‘Lie of Survival‘ è il primo vero ottimo brano del disco, con il lento incedere iniziale tendente al southern rock, è un viaggio astrale di bellezza infinita, grazie anche alla parte centrale che finalmente si discosta dai minuti precedenti e rende più dinamica la struttura del brano. Qualche lieve richiamo ai primi vagiti della band è riscontrabile ora e ne siamo più che contenti. La seconda parte di “Heartless” si apre con una lunga suite da undici minuti e oltre, la prima prima porzione è abbastanza prevedibile, mentre dal sesto minuto qualcosa si smuove e una partitura semi-sludge, con una cattiveria maggiore nei vocalizzi, ci anticipa quella chitarra acustica che in quel momento non è altro che pura magia. Uno degli apici dell’intero disco. ‘Cruel World‘ e la titletrack sono i due brani che possiamo definire semi-sperimentali, dove l’essenza dei Pallbearer riesce a lasciarsi andare oltre quelle catene che prima li vincolavano troppo e troppo spesso. Prendiamo proprio la titletrack, con il movimento centrale strumentale e quella batteria, in tipico stile jazz, prima di esplodere su un assolo prezioso: oro puro che in chiusura va ad omaggiare il prog settantiano che tanto ci ha dato. Il finale è riservato alla seconda e ultima suita da oltre dodici minuti, ‘A Plea of Understanding‘, un brano che vive nei meandri dei Pink Floyd, nelle sfumature dei While Heaven Wept, dentro i Trouble, ma sopra ogni cosa grazie ai dimenticati (purtroppo) Warning e quei loro due capolavori che di sicuro i Pallbearer hanno studiato e ristudiato a memoria. Chissà perchè nessuno ne parla mai.
“Heartless” è un disco maturo e sotto certi aspetti nuovo nel mondo Pallbearer, contiene moltissimi spunti di ottima fattura e alcuni tocchi geniali. Nel suo complesso, nella sua irreale ariosa velatura, si discosta molto da passato, facendo perdere in certi punti l’intensità e l’epicità oscura di un tempo. La bellezza di ‘The Ghost I Used to Be‘ del precedente “Foundations of Burden” è stata lasciata alle spalle e non riproporsi una seconda volta è giusto, ma guardando all’album in generale abbiamo di fronte un ottimo disco, che di capolavoro però non ne ha nemmeno l’ombra. Bravi, ma la definitiva consacrazione stenta ancora ad arrivare.