Recensione: Heartrock
A cercare dell’AOR di buona qualità non c’è, in fondo, da fare troppa fatica.
Basta sfrucugliare tra le uscite che mensilmente provengono dal nord europa: in mezzo a tanto materiale estremo, ci sarà senza dubbio qualche proposta di stampo prettamente melodico che potrà rivelarsi interessante almeno un po’.
È già fuori da un paio di mesi e ce ne siamo colpevolmente accorti solo ora. Il secondo album prodotto dai finlandesi Wake the Nations è un notevole esempio di quanto abbiamo appena riportato: un prodotto che potremmo definire “underground” seguendo la logica che definisce in tal modo le novità che non sono destinate a raggiungere grossi riscontri in termini di vendite.
L’eleganza e l’abilità con cui è confezionato, permettono tuttavia di considerare “Heartrock” un piccolo gioiello “nascosto” di un genere che, abbandonati da parecchio tempo i canoni del fenomeno destinato al grande pubblico, non manca comunque di rendersi spesso protagonista di novità di ottimo valore, messe in circolazione da musicisti talvolta poco noti da queste parti nonostante un profilo artistico di buonissimo livello.
Nati come una sorta di emanazione dei (poco) più conosciuti Human Temple, i Wake the Nations riprendono per sommi capi gran parte di quelli che sono i caratteri fondanti della band “madre”, ancorandosi con forza all’immaginario tipico del rock melodico scandinavo. Quello che parte da lontano, dagli Street Talk, dai Treat e dagli Alien, per connettersi – cammin facendo – con le grandi realtà odierne capaci di dare nuovo impulso e linfa al settore. I soliti, nemmeno a dirlo, H.E.A.T., The Poodles e Brother Firetribe…nomi già citati quali termine di paragone, in casi analoghi, qualche milione di volte.
Questo per dire che no, non è l’originalità il patrimonio fondante che sta alla base di un progetto come quello dei Wake The Nations. Le coordinate, dopo tutto, sono quasi sempre le solite.
Però, suvvia, una volta tanto evitiamo la consueta litania sul fatto che nemmeno Risto Tuominen ed i suoi sodali hanno inventato qualcosa di nuovo. Quello che conta, che sta sopra ad ogni cosa e si dimostra determinante nel valutare il successo di un disco AOR è il potenziale d’ascolto delle canzoni.
E qui, onestamente, ce n’è invero parecchio.
I brani scorrono, propongono melodie accattivanti, stuzzicano l’orecchio ed invogliano a passaggi ripetuti: pazienza se il copione non si inerpica su strade inesplorate e nemmeno tenta di esprimere idee sinora sconosciute.
La sostanza è quella che conta. E quando è costruita attorno a pezzi come “No Mercy”, “Tattooed Girl”, “Fallen Angel”, “Flames” e “Higher” non c’è moltissimo da fare o da commentare.
Serve solo porsi all’ascolto, null’altro. Lasciandosi magari appassionare da una selezione di armonie solari, piene di brio, scintillanti o – come si diceva nell’epoca d’oro del genere – “elegantemente cromate“. Canzoni insomma, che hanno nelle atmosfere di classe e nella definizione dei dettagli, più che nella forza dirompente, l’atout utile nel vincere la partita.
Materiale che alle orecchie di quei pochi maniaci dell’AOR – e più specificatamente dello scandi-rock – rimasti, non potrà che risultare come una specie di balsamo salutare dagli effetti rinvigorenti.
Come specificato in apertura, “Heartrock” è già uscito da un paio di mesi, un tempo più che sufficiente che avrà permesso agli appassionati di cui sopra di farne adeguata conoscenza.
In caso contrario, potrebbe, in effetti, valer la pena il provvedere a procurarsene una copia alla svelta…